Quel cinico di Yeats

For Anne Gregory

“Never shall a young man,

Thrown into despair

By those great honey-coloured

Ramparts at your ear,

Love you for yourself alone

And not your yellow hair”.

“But I can get a hair-dye

And set such colour there,

Brown, or black, or carrot,

That young men in despair

May love me for myself alone

And not my yellow hair.”

“I heard an old religious man

But yesternight declare

That he had found a text to prove

That only God, my dear,

Could love you for yourself alone

And not your yellow hair”.

Scritta sotto forma di dialogo tra il poeta e una giovane donna, For Anne Gregory non è solo una poesia – una delle più citate dell’irlandese William Butler Yeats (1865-1939) – ma anche una riflessione attualissima su che cosa significhi amare “veramente” una persona.

Secondo uno dei luoghi comuni più diffusi in ambito sentimentale, il vero amore presuppone che l’altro/l’altra debba essere amato/amata per sé stesso/stessa, non per una caratteristica fisica o un altro elemento contingente e transeunte: per un ricciolo che ricade in un dato modo sulla fronte, per un sorriso perfettamente asimmetrico o completamente asimmetrico, per la grandezza degli occhi o la bellezza delle natiche.

Vi sarebbe un’essenza, unica in tutti noi, che solo il vero amore consentirebbe di cogliere; un’essenza irriducibile a un tratto fisico, ma anche a uno status professionale, a un’appartenenza di classe, ceto o gruppo sociale, a determinate caratteristiche cognitive e di personalità. Questa essenza rimarrebbe la medesima a dispetto di ogni cambiamento superficiale (e quindi anche fisico) e sarebbe immune al passare del tempo o a un mutamento interiore.

Questo pregiudizio genera spesso, tra amanti, una domanda, che finisce inevitabilmente con il suscitare imbarazzo e che raramente trova risposta, se non per convenienza. La domanda può assumere numerose forme: “Mi ameresti se diventassi gobba?”; “Mi amerai ancora quando sarò vecchio?”; “Mi ameresti ancora se diventassi brutto/povera/cieco/impotente?”.

Chi risponde tentenna, si chiede perché gli/le venga rivolta quella domanda. Al più, tenderà ad attribuirne l’origine alla insicurezza dell’altro/a. e, quindi, mentirà, assicurando l’eternità del proprio amore a dispetto di ogni avversità della vita.

La realtà, come dice Yeats, è che per amare – per amare davvero – abbiamo bisogno proprio di quel ricciolo, quel sorriso, quegli occhi, quelle natiche. Non esiste un’essenza che, trascendendo ogni contingenza e celandosi negli strati più profondi del nostro essere, sarebbe afferrabile solo dall’amore, l’amore vero.

Amare significa amare il contingente, l’effimero e assolutizzarlo, sublimarlo nell’eterno. L’amore è accidentalità eternata. Non esiste un sé assoluto, se non nella mitologia sull’amore che l’Occidente va elaborando da migliaia di anni.

Solo dio, conclude Yeats, potrebbe amarci per noi stessi e basta. Ma forse anche lui (o lei) avrebbe qualche difficoltà a farlo. Basti ricordare che amò Mosè solamente quando questi “alzava le mani”! (1).

(1) Il riferimento è a Esodo 17, 8-16

Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare, lo chiamò «Il Signore è il mio vessillo» e disse: «Una mano s’è levata sul trono del Signore: vi sarà guerra del Signore contro Amalek di generazione in generazione!.

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