Le osservazioni (indirette) sul calcio di Orwell

Pubblicate nel 1945, le Osservazioni sul nazionalismo di Orwell sono solitamente interpretate come un commento alla situazione politica dell’epoca, alle passioni eccessive e agli odi gratuiti nei confronti di questo o quell’orientamento in Inghilterra e in Europa in un periodo caratterizzato dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’imporsi del comunismo in Russia, la sconfitta dei regimi fascisti e nazisti, il diffondersi di varie forme di estremismo. In questo scritto, Orwell discute in particolare delle derive del “nazionalismo”, termine a cui assegna un significato volutamente vago: «l’abitudine di presumere che gli esseri umani possano essere classificati come insetti e che milioni, anzi decine di milioni di individui possano essere tranquillamente etichettati come “buoni” o “cattivi”» ma anche, in secondo luogo, «l’abitudine di identificarsi in una unica nazione o in unica entità, collocandola al di là del bene e del male e non riconoscendo altro dovere se non quello di promuoverne gli interessi».

È a partire da questa deliberata vaghezza che intendo fornire una interpretazione alternativa delle osservazioni orwelliane, estendendone metaforicamente il contenuto ai fatti del calcio, in particolare del tifo. Mi sembra, infatti, che molte considerazioni dello scrittore inglese possano essere utilmente adoperate per capire quella figura, per certi versi enigmatica, del tifoso di calcio, i cui comportamenti sembrano spesso rispondere a logiche bizzarre, se non elusive alla ragione, ma che in realtà presuppongono un frame mentale diverso dall’ordinario e che facilmente etichettiamo come deviante.

Per cominciare, l’atteggiamento mentale nazionalista denunciato da Orwell non si riferisce esclusivamente alla nazione, ma a qualsiasi ente, “chiesa”, “classe” in cui un individuo possa identificarsi. È facile, dunque, sostituire ai termini citati quello di “squadra” e presumere, come fa il nazionalista di Orwell, che il mondo sia suddivisibile in tifosi “buoni” o “cattivi”, ossia in tifosi della propria squadra e tifosi delle squadre avversarie. Non solo. Come il nazionalista, anche il tifoso ha l’abitudine di identificarsi in una unica squadra, «collocandola al di là del bene e del male e non riconoscendo altro dovere se non quello di promuoverne gli interessi». In questo senso, l’obiettivo invariabile di ogni tifoso è di procurare più potere e più prestigio alla squadra «a cui ha scelto di sacrificare la propria individualità». Questo atteggiamento manicheo e sacrificale del tifoso è sotto gli occhi di tutti e costituisce indubbiamente uno dei suoi tratti distintivi. Ma le somiglianze con il nazionalista di Orwell non finiscono qui

Come questi può assumere un atteggiamento tanto positivo quanto negativo, così anche il tifoso può assumere un atteggiamento tanto positivo, e quindi votarsi a incoraggiare il massimo successo possibile della propria squadra, quanto negativo, e quindi tifare contro l’altra squadra, spesso con la medesima convinzione con la quale sostiene i propri colori. Anzi, il “tifo contro” rappresenta una delle modalità più sentite di fare il tifo, con il paradosso che il tifoso può gioire per la sconfitta della squadra odiata anche se la propria colleziona solo insuccessi.

Come il nazionalista, il tifoso «ragiona sempre in termini di vittorie, sconfitte, trionfi e umiliazioni». Non «si limita a far suo il principio di unirsi alla parte più forte. Al contrario, avendo scelto da che parte stare, si persuade che questa sia la più forte e riesce a persistere nella sua convinzione anche se i fatti si rivoltano prepotentemente contro di lui». Accecato dalla propria passione, il tifoso cede volentieri all’autoinganno ed è «capace del più palese atto di disonestà, ma è anche — giacché è consapevole di essere al servizio di qualcosa più grande di lui — fermamente convinto di essere nel giusto». È noto come il tifoso accanito arrivi al punto di percepire come un “netto rigore” un’azione che, a parti invertite, è interpretata come un “banale scontro di gioco”. Tale interpretazione si tramuta spesso in un vero e proprio autoinganno che persiste nel tempo, talvolta assumendo toni vittimistici e complottistici, a dispetto di ogni evidenza.

Orwell elenca alcune caratteristiche del pensiero nazionalista che possono essere riscontrate agevolmente anche nel tifoso.

Ossessione. Il tifoso, come il nazionalista, pensa, parla e scrive solo «dell’entità in cui si identifica» ed difficile, se non impossibile, che «tenga nascosta la propria appartenenza. La minima offesa ai danni della sua compagine, o un qualsiasi elogio, per quanto indiretto, a una organizzazione rivale, è per lui causa di turbamento; turbamento che riesce a mitigare solo rispondendo per le rime». Questo atteggiamento si traduce talvolta in comportamenti facinorosi, violenti che si “scaricano” in occasione degli incontri di calcio, tramutandosi in zuffe, alterchi, colluttazioni con i tifosi della squadra rivale e con la polizia. L’identificazione del tifoso con la propria squadra comporta sovente che ogni offesa a essa diventi una offesa a se stessi con conseguenze drammatiche sulla propria autostima e sulla propria personalità.

Instabilità. Nel calcio, la devozione del tifoso ricade tanto sul giocatore con cui condivide la nazionalità quanto sullo straniero, di qualsiasi paese sia, purché faccia parte della propria squadra. La squadra rappresenta la variabile indipendente a cui si assegna ogni significato positivo. Lo stesso calciatore viene investito di valenze positive o negative secondo la maglia che indossa e non è raro che il beniamino di ieri si tramuti nell’odioso traditore di oggi. Come afferma Orwell, «l’intensità con cui sono vissuti non impedisce ai sentimenti di lealtà nazionalista di essere trasponibili. Per cominciare, […] essi possono essere, e sovente lo sono, fissati su una nazione straniera. È piuttosto comune che i grandi leader di una nazione, o i fondatori dei movimenti nazionalisti, non appartengano nemmeno alla nazione che hanno magnificato». Ciò che rimane costante, dunque, tanto per il nazionalista quanto per il tifoso, è il loro atteggiamento mentale: «l’oggetto dei [loro] sentimenti è mutevole e può essere immaginario». Il tifoso traspone.

Indifferenza nei confronti della realtà. Dice Orwell: «Nessun nazionalista è in grado di scorgere le analogie esistenti tra insiemi di fatti simili. Un tory britannico difenderà l’autodeterminazione in Europa opponendosi a essa in India senza avvertire alcuna incoerenza. Le azioni non sono giudicate buone o cattive di per sé, ma in base a chi le compie, e non vi è quasi alcuna atrocità — la tortura, la presa di ostaggi, il lavoro forzato, l’espulsione di massa, la reclusione senza processo, la contraffazione, l’assassinio, il bombardamento di civili — che non cambi il proprio significato morale quando viene commessa dai “nostri”. Il nazionalista non solo non disapprova le atrocità commesse dalla sua fazione, ma ha la straordinaria capacità di ignorarle». Come accennato, tale indifferenza è condivisa per intero dal tifoso. Ogni gesto dei propri idoli è elogiato e acclamato; quello del calciatore rivale sminuito o denigrato. Il rigore concesso agli avversari è sempre un “regalo”, una “concessione generosa”, se non una “truffa”, un “imbroglio”; quello accordato alla propria squadra sempre “sacrosanto”, “chiarissimo”, “incontestabile”. I propri calciatori sono sempre corretti e rispettosi del fair play; gli altri fallosi e maliziosi. La stessa azione cambia “significato morale” se compiuta dai “nostri” o dai “loro”. Alla fine, la realtà è tutta una questione di percezione; percezione, però, condizionata dalla propria appartenenza calcistica. Con la conseguenza paradossale che, per il tifoso come per il nazionalista, «alcuni fatti sono al tempo stesso veri e falsi, noti e ignoti. Un fatto noto può essere talmente intollerabile da essere comunemente rigettato ed escluso dal pensiero logico, oppure può essere oggetto di ogni valutazione senza per questo essere ammesso come fatto, nemmeno dalla propria mente».

Del resto, ciò che il tifoso desidera «è sapere che la propria parte ha avuto la meglio sull’altra, obiettivo più facilmente raggiungibile oltraggiando l’avversario piuttosto che valutando i fatti per accertare se essi sostengano la sua posizione. Ogni controversia […] non giunge sistematicamente a nessuna conclusione, dal momento che ogni contendente crede invariabilmente di aver conseguito la vittoria». La passione calcistica è tale che il tifoso trova sempre un modo per avere ragione. Se la propria squadra perde contro gli odiati rivali, ad esempio, potrà sempre argomentare che gli altri hanno “giocato sporco” o hanno corrotto l’arbitro, che il campo di calcio era in condizioni pietose, che il clima era avverso, che si giocava in un orario disumano, che mancavano calciatori importanti ecc. Tutto, pur di non ammettere che i rivali hanno vinto perché più forti. Come osserva ancora Orwell: «Se da qualche parte nella mente alberga un sentimento di appartenenza […] o di odio, alcuni fatti risulteranno inammissibili, anche se, in un certo senso, tutti sanno che sono veri». Così, il tifoso non ammetterà mai che la propria squadra è inferiore ai diretti concorrenti, anche se ciò è ovvio a tutti coloro che non sono emotivamente coinvolti nel tifo. Un pungolo al nervo del tifoso «è sufficiente a far svanire ogni rispettabilità intellettuale, ad alterare ogni passato, a negare i fatti più evidenti».

Per concludere, la sostanza è che, non appena sopraggiungono tifo, «paura, odio, gelosia e culto del potere, il senso della realtà viene a essere sconvolto. E […] viene a essere sconvolto anche il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Non vi è alcun crimine, assolutamente nessuno, che non possa essere perdonato se a commetterlo sono i “nostri”. Anche se non neghiamo che il crimine sia accaduto, anche se sappiamo che è esattamente il medesimo crimine che abbiamo condannato in un’altra circostanza, anche se concediamo intellettualmente che è ingiustificato, non riusciamo a sentire che è sbagliato. Quando è coinvolta la lealtà, la pietà cessa di esistere». Allo stesso modo, non vi è fallo crudele, trucco del mestiere, furbata diabolica, tattica difensivistica che il tifoso senta sbagliati se a eseguirli sono i calciatori della propria squadra. Se, invece, i responsabili sono gli avversari, questi saranno sempre oggetto di riprovazione morale e calcistica, senza eccezione.

Il calciatore, come il nazionalista, presenta un frame mentale peculiare. Bisogna comprenderne i meccanismi se non si vuole correre il rischio di condannarlo in quanto irrimediabilmente irrazionale. È quello che tenta di fare Orwell, a proposito dei nazionalisti, nel suo Osservazioni sul nazionalismo. È quello che dovremmo fare anche noi oggi, a proposito di quella forma unica di nazionalismo che è il tifo.

Qui la mia traduzione delle Osservazioni sul nazionalismo di George Orwell

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