Le conseguenze del calcio per il tifoso

Lo sappiamo tutti. A volte accadono incidenti. Ci distraiamo e la nostra auto ne urta un’altra. Usciamo di casa e lasciamo il rubinetto del bagno aperto. Una pioggia forte ci impedisce di raggiungere i nostri amici. Una grandinata distrugge un raccolto. Succede. Non possiamo farci niente. Non possiamo controllare tutto ciò che ci succede. Spesso poi le cose accadono a dispetto delle nostre migliori intenzioni. E dobbiamo rassegnarci. Life is a bitch, come dicono gli americani. Ma ci rassegniamo davvero? Una delle acquisizioni più volte confermate dalla psicologia sociale è che le persone tendono ad assegnare gradi di responsabilità maggiori in proporzione alla gravità delle  conseguenze di un incidente. Pensiamoci bene. Se un inconveniente costringe il pilota di un aereo a un atterraggio di emergenza, lodiamo le capacità del pilota. Se lo stesso inconveniente causa un disastro con morti e feriti, pretendiamo di individuare il responsabile  a ogni costo e punirlo severamente. E più grave è il disastro, più vogliamo un responsabile e più assumiamo un atteggiamento di forte severità punitiva nei suoi confronti. In altre parole, lo stesso evento può essere valutato diversamente a seconda delle sue conseguenze.

Nel 1966, la psicologa Elaine Walster condusse un interessante esperimento al riguardo. Descrisse un incidente a due gruppi di soggetti composti complessivamente da 44 uomini e 44 donne. Il protagonista dell’incidente era un uomo di nome Lennie che aveva parcheggiato l’auto in una strada collinare senza attivare il freno a mano così che l’auto aveva cominciato a muoversi in discesa lungo il pendio. A entrambi i gruppi la storia di Lennie fu descritta allo stesso modo per quanto riguarda gli aspetti biografici, le aspirazioni di vita e altri fatti di contesto. La differenza fu che, al primo gruppo, fu detto che le conseguenze dell’incidente erano state trascurabili: solo una piccola ammaccatura. Al secondo gruppo, invece, fu detto che l’auto aveva investito e ferito gravemente un passante, che era stato costretto a trascorrere un intero anno in ospedale. I soggetti che avevano sentito che le conseguenze erano state più gravi considerarono Lennie più responsabile dell’incidente rispetto ai soggetti che invece avevano sentito che le conseguenze erano state trascurabili. Ciò, nonostante l’evento iniziale e il background di riferimento fossero gli stessi.

Questa tendenza umana ha delle conseguenze interessanti, su cui varrebbe la pena riflettere. È noto come si verifichino numerosi incidenti stradali dovuti a incuria, distrazione, condizioni pessime della strada o del tempo. Eppure, a parità di fattori causali, si cerca il “responsabile” a ogni costo solo quando le conseguenze dell’incidente sono gravi o letali. Un simile atteggiamento lo si rinviene anche nello sport. Nel calcio, a parità di errore di giudizio, alcuni arbitri sono ritenuti maggiormente responsabili e più suscettibili di punizione se le conseguenze dell’errore sono decisive ai fini delle sorti del campionato. Lo stesso fallo o fuorigioco non segnalato può essere valutato in maniera diversa in partite diverse: essere appena menzionato dai tifosi e dai giornalisti sportivi in una partita tra squadre minori oppure oggetto di infinite discussioni nel caso di un incontro che assegna lo scudetto. E questo – ripeto – nonostante, l’errore sia il medesimo. In alcuni casi, il giudizio arriverà a coinvolgere lo stesso arbitro: nel primo caso si dirà che l’errore è stato commesso in buonafede; nel secondo, che è frutto di una “evidente” malafede che ha “falsato” il torneo. In queste situazioni, il tifoso non si rende conto che è vittima di un errore cognitivo, alimentato dalla propria passione sfegatata, e finisce con l’attribuire all’arbitro disposizioni malevole o predisposizioni negative. “Vedrà” situazioni diverse a cui attribuirà cause diverse. E non ci sarà modo di convincerlo. Perché il campionato è “falsato”.

Riferimento: Elaine Walster, 1966, “Assignment of Responsibility for an Accident”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 3, n. 1, pp. 73-79.

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