Il civile, magico mondo in cui viviamo

Sir Kenelm Digby

Nelle prime pagine del suo Il Ramo d’oro, il noto antropologo James George Frazer scrive:

Se analizziamo i principi di pensiero su cui si basa la magia, troveremo probabilmente che essi si risolvono in due: primo, che il simile produce il simile, o che l’effetto rassomiglia alla causa; secondo, che le cose che siano state una volta a contatto, continuano ad agire l’una sull’altra, a distanza, dopo che il contatto fisico sia cessato. Il primo principio può chiamarsi legge di similarità, il secondo legge di contatto o contagio.

La legge di similarità e quella di contatto o contagio rientrano nell’ambito di quella che Frazer chiama “Legge di simpatia” o “magia simpatica”, che dovrebbe costituire l’essenza e l’emblema del modo di pensare dell’uomo primitivo, secondo un pregiudizio ancora oggi presente in maniera più o meno strisciante nel mondo occidentale.

Potrebbe, dunque, apparire bizzarro che un simile modo di pensare sia invalso anche nel nostro civilissimo Occidente. Eppure, ciò è esattamente quanto accaduto nel diciassettesimo secolo, come testimonia una pratica non molto nota, rivelata dalla studiosa Elizabeth Hedrick nel suo “Romancing the Salve: Sir Kenelm Digby and the Powder of Sympathy”.

In quel periodo erano diffuse forme di “medicina simpatica” che prevedevano che, nel caso un uomo fosse ferito da una spada, si applicasse un unguento composto da grasso di orso, lombrichi, occhi di granchio, ambra, sangue, vino, muschio ricavato da un teschio e mummia tritata alla… spada (non alla ferita!) nel presupposto che, per una sorta di legge del contagio, gli effetti benefici dell’unguento potessero trasferirsi alla ferita che la lama della spada aveva causato.

Un certo Sir Kenelm Digby, autore del volume  A Late Discourse … Touching the Cure of Wounds by the Powder of Sympathy (1658) era un convinto assertore dell’efficacia della “polvere della simpatia”, una sostanza composta da nient’altro che da acido solforico e acqua. La “polvere” doveva essere sparsa sugli abiti insanguinati o sulle bende della persona ferita e, secondo Digby, avrebbe funzionato anche se la persona in questione fosse stata in un altro paese o nazione in virtù della citata legge del contatto.

Come è evidente, il pensiero magico non è limitato esclusivamente agli uomini primitivi di cui discutevano Frazer e gli altri antropologi ottocenteschi, ma è stato presente – e forse lo è ancora – anche nelle nostre familiari lande occidentali. Del resto, non si spiegherebbe perché maghi e sensitivi, ancora oggi, abbiano tantissimi clienti e fatturino (senza fattura!) migliaia e migliaia di euro. Evidentemente, anche noi crediamo nelle leggi del contagio e della similarità. Solo che non ci piace ammetterlo.

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