Perché abbiamo bisogno dell’immondizia

TBH Honeycomb

L’immondizia, i rifiuti, gli scarti della nostra società opulenta sono l’oggetto culturale più vituperato degli ultimi cinquant’anni. Ne temiamo la presenza, ne odiamo l’invadenza. Li additiamo come causa di tutti i nostri problemi sociali, di salute,di civiltà. Ne faremmo tanto volentieri a meno. E, in effetti, i nostri governanti fanno della rimozione dell’immondizia dalla nostra vista, più che del suo riciclo, una delle strategie persuasive privilegiate delle loro campagne elettorali: l’importante è non vederla, come insegna il caso Napoli.

Ci potremmo, però, domandare se, in realtà, la scomparsa dell’immondizia è compatibile con la civiltà come la conosciamo. La risposta è no: se vogliamo questa civiltà dobbiamo volere anche questa immondizia, che della civiltà è l’indicatore di opulenza per eccellenza. Non c’è l’una senza l’altra. Possiamo riciclarla, trasformarla, polverizzarla. Ma non possiamo pretendere che essa semplicemente non ci sia. Perché se essa non ci fosse, non ci sarebbe nemmeno la nostra civiltà. Ne era a conoscenza, all’inizio del Settecento, quel fine scrittore che risponde al nome di Bernard Mandeville il quale, nell’introduzione alla sua celeberrima Favola delle api, scrisse quella che potrei intitolare una Apologia dei rifiuti. Mi piace citarla per intero (cit. da Mandeville, B., 2004, Sociabilità, Liberilibri, Macerata, p. 47):

Credo che ci siano poche persone a Londra, tra quelle sempre costrette ad andare a piedi, che non vorrebbero, finché si tratta dei loro vestiti e della loro convenienza privata, che le strade fossero generalmente più pulite di quanto sono. Ma una volta che siano giunti a considerare che ciò che li offende è il risultato dell’abbondanza, del grande traffico e dell’opulenza di questa grande città, se avessero il minimo interesse per il suo benessere non vorrebbero assolutamente mai vedere le sue strade meno sporche. Poiché, se consideriamo i materiali di ogni sorta che devono essere forniti al numero infinito di commerci e manifatture nella loro incessante attività; la grande qualità di alimenti, bevande e combustibile che vi sono quotidianamente consumati; gli scarichi e i rifiuti che devono essere prodotti; la moltitudine di cavalli e di altre bestie che insozzano sempre le strade; i carri, le carrozze e i veicoli più pesanti che ininterrottamente logorano e rompono la loro pavimentazione; e soprattutto gli sciami innumerevoli di gente che percorrendole di continuo le rovina; se, voglio dire, consideriamo tutti questi aspetti, scopriremo che nuova sporcizia viene prodotta ad ogni momento. Considerando inoltre quanto le grandi strade sono lontane dal fiume e di quale costo e impegno ci si deve sobbarcare per rimuovere la sporcizia nel momento in cui viene prodotta, sarebbe impossibile per Londra essere più pulita prima di essere meno fiorente. Ora mi chiedo se un buon cittadino, in considerazione di quel che si è detto, non potrebbe asserire che le strade sporche sono un male necessario inseparabile dalla felicità di Londra, senza che ciò sia di minimo impedimento alla pulizia delle scarpe o allo spazzare le strade, e quindi senza alcun pregiudizio verso i lustrascarpe o gli spazzini.

Quando Mandeville scrisse queste parole, la sua Londra era lontana dall’assomigliare a una qualsiasi metropoli dell’Occidente postmoderno di oggi. Ma i rifiuti, gli scarti erano già presenti a testimonianza dell’industriosità degli abitanti della capitale inglese. Ogni nostra azione produce scarti. Ogni nostro tentativo di imporre un ordine alla realtà nuda e cruda produce disordine. Ma ogni disordine è tale in relazione a un ordine definito. E ne è funzionale alla perpetuazione. Così come è necessario alla perpetuazione della nostra società dei diritti che esista il crimine – sì, il crimine – come avevano intuito lo stesso Mandeville e Marx.

Immaginate dunque una società senza ladri, falsari, corruttori ecc. Non ci sarebbero poliziotti, giudici, criminologi televisivi, fabbri specializzati in serrature di sicurezza, videosorveglianza. Milioni di disoccupati. Livelli di creatività più bassi. Civiltà allo sbando. Scrittori in costante crisi di ispirazione. Sfiducia dilagante. Forse.

Contro le nostre migliori intenzioni, abbiamo bisogno del disordine, dell’immondizia reale e metaforica. Di questi prodotti secondari delle nostre attività primarie da cui queste dipendono. Di questo retroscena che dà gloria al proscenio in cui ci crogioliamo. Non possiamo dirlo ad alta voce, né lodarlo. Anzi, dobbiamo biasimarlo e condannarlo come condanniamo chi ruba e chi  stupra. Ma la nostra società, per evolversi, risponde a logiche e meccanismi che non sempre condividiamo e che anzi detestiamo. Qualche giorno fa ho incrociato un adolescente che ha gettato un pezzo di carta in strada, giustificando il suo gesto con queste parole: “E gli spazzini? Che ci stanno a fare?”. Mandeville non gli darebbe torto.

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