Un curioso caso di xenoglossia in Coleridge

Per xenoglossia si intende la facoltà di esprimersi correttamente in una lingua umana, senza conoscerla. Si tratta di una delle più note facoltà paranormali, attribuita, seconda il sistema di credenze di riferimento, alla possessione di un demone (gli esorcisti identificano nella xenoglossia uno dei sintomi della possessione insieme alla chiaroveggenza, all’esibizione di una forza straordinaria e all’avversione al sacro), a un dono divino (in Marco 16, 15-18, viene detto che uno dei segni che accompagnano quelli che credono è appunto il “parlare lingue nuove”), alla presenza di un’entità (ad esempio durante una seduta spiritica con un medium) o al riemergere di vite precedenti (per chi crede nella reincarnazione).

La xenoglossia è dunque un fenomeno complesso che accompagna, speso in maniera clamorosa, altri fenomeni di natura religiosa o paranormale. A dispetto della sua straordinarietà, però, questo fenomeno linguistico può essere interpretato in maniera perfettamente razionale. Un medium, ad esempio, può sostenere di parlare una lingua straniera che invece non è altro che la sua lingua parlata con accento straniero! In altri casi, i testimoni non sono in grado di dire se la lingua da loro udita è davvero straniera perché non la conoscono: ad esempio, molti preti che giurano di aver sentito un “posseduto” parlare in aramaico in realtà non conoscono affatto l’aramaico. Frequentemente, poi, sono le aspettative e credenze di chi ascolta a tradurre dei suoni indistinti in una lingua nota.

Una spiegazione psicologica interessante è, infine, fornita dalla “criptomnesia”, il fenomeno psicologico in seguito al quale si apprende una lingua e poi si dimentica di averlo fatto. Un curioso caso di xenoglessia criptomnestica è rinvenibile in un autore insospettato, il poeta inglese Samuel Coleridge, il quale, nel sesto capitolo della sua Biographia literaria (1816), riporta un gustoso episodio che farebbe l’invidia di molti “detective dell’occulto”.  Eccolo qui:

Un caso del genere accadde in una città tedesca di confessione cattolica romana uno o due anni prima del mio arrivo a Gottinga e da allora continua a essere argomento frequente di conversazione. Una giovane di ventiquattro o venticinque anni, che non sapeva né leggere né scrivere, contrasse una febbre nervosa, durante la quale, secondo quanto testimoniato da tutti i sacerdoti e i monaci del vicinato, fu posseduta, a quanto pare, da un diavolo coltissimo. La donna non smetteva mai di parlare in latino, greco ed ebraico, affettando toni assai solenni e pronunciando le parole in maniera molto chiara. Che fosse posseduta appariva probabile in virtù del fatto, a tutti noto, che era o era stata un’eretica. Voltaire consiglia spiritosamente al diavolo di stare alla larga dagli uomini di medicina; un consiglio che avrebbe giovato alla sua reputazione, se lo avesse seguito in questa occasione. Il caso aveva attirato l’attenzione di un giovane medico e, stando alle sue dichiarazioni, molti eminenti fisiologi e psicologi visitarono la città e indagarono la vicenda sui due piedi. Pagine su pagine furono riempite delle farneticazioni della giovane, e fu scoperto che esse consistevano di frasi coerenti e intellegibili, se prese a una a una, ma scarsamente o per nulla connesse tra loro. A proposito delle parole in ebraico, solo una piccola parte di esse poté essere rinvenuta nella Bibbia; il resto sembrava un dialetto rabbinico. Fu esclusa ogni possibilità di trucco o complotto. Era evidente che la giovane era una persona semplice e innocua e che soffriva per una febbre nervosa. In città, dove viveva da molti anni come domestica di varie famiglie, nessuno seppe spiegare il fenomeno. Il giovane medico, tuttavia, decise di indagare meticolosamente la sua esistenza passata; la paziente, invero, non era in grado di rispondere in maniera razionale alle domande che le si facevano. Il medico, riuscì, infine, a trovare il luogo dove vivevano i genitori della ragazza: vi si recò e scoprì che non erano più in vita, ma che lo era uno zio; da lui apprese che la paziente era stata caritatevolmente accolta da un vecchio pastore protestante all’età di nove anni, e aveva vissuto con lui per diversi anni, fino alla morte del vecchio. Lo zio non sapeva nulla del pastore, tranne che era una brava persona. Con grande difficoltà, e dopo molte ricerche, il nostro giovane medico filosofo trovò una nipote del pastore, che aveva vissuto con lui come sua governante, e che ne aveva ereditato i beni. Ricordava la ragazza; raccontò che  il venerando zio era stato troppo buono con lei, che non riusciva a rimproverarle niente; aggiunse che avrebbe voluto tenere la ragazza con sé, ma che, dopo la morte del suo mentore, la giovane non aveva voluto più rimanere. A questo punto, il medico condusse un’indagine serrata sulle usanze del pastore; e infine trovò la spiegazione del fenomeno. Sembra che, per anni, il vecchio avesse avuto l’abitudine  di percorrere avanti e indietro un corridoio della sua abitazione che conduceva alla porta della cucina, leggendo ad alta voce i suoi libri preferiti. La nipote ne possedeva ancora molti. Aggiunse che era un uomo assai colto e un grande ebraista. Tra i suoi libri fu trovata una raccolta di scritti rabbinici e di libri dei padri latini e greci. Il medico riuscì a identificare molti brani simili a quelli annotati al capezzale della giovane, e nessun uomo dotato di ragione ebbe alcun dubbio sulla vera origine delle  impressioni che avevano colpito il sistema nervoso della paziente.

Per quanto Coleridge sia conosciuto come poeta visionario, in questo brano dà prova di una perfetta lucidità mentale ed espone razionalmente un caso che, ai più, appariva misterioso. Il fatto è che, se non si ha la pazienza e la meticolosità di indagare i fenomeni apparentemente misteriosi, questi rimangono tali e sono ricordati in seguito come prova a favore del mistero.

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