Scrive Leopardi
È pure un tristo frutto della società e dell’incivilimento umano anche quell’essere precisamente informato dell’età propria e de’ nostri cari, e quel sapere con previsione che di qui a tanti anni finirà necessariamente la mia o la loro giovinezza ec. ec. invecchierò necessariam. o invecchieranno, morrò senza fallo o morranno, perché la vita umana non potendosi estendere più di tanto, e sapendo formalmente la loro età o la mia io veggo chiaro che dentro un definito tempo essi o io non potremo più viver goder della giovinezza ec. ec. Facciamoci un’idea dell’ignoranza della propria età precisa ch’è naturale, e si trova ancora comunemente nelle genti di campagna, e vedremo quanto ella tolga a tutti i mali ordinari e certi che il tempo reca alla nostra vita, mancando la previdenza sicura che determina il male e lo anticipa smisuratamente, rendendoci avvisati del quando dovranno finire indubitamente questi e quei vantaggi della tale e tale età di cui godo ec. Tolta la quale l’idea confusa del nostro inevitabile decadimento e fine, non ha tanta forza di attristarci, né di dileguare le illusioni che d’età in età ci consolano. Ed osserviamo quanto sia terribile in un vecchio p. e. d’80. anni, quel sapere determinatam. che dentro 10. anni al più egli sarà sicuram. estinto, cosa che ravvicina la sua condizione a quella di un condannato, e toglie infinitam. a quel gran benefiz. della natura d’averci nascosto l’ora precisa della nostra morte che veduta con precisione basterebbe per istupidire di spavento, e scoraggiare tutta la nostra vita (Giacomo Leopardi, 2022, Zibaldone, Mondadori, Milano, p. 75).
A che cosa serve conoscere l’età? Potrebbe sembrare una domanda strana, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui ogni aspetto dell’esistenza è contabilizzato e ridotto in cifre. Non a caso, imparare ad associare un numero allo scorrere del tempo è considerato uno dei più importanti requisiti di un sano processo evolutivo. “Quanti anni hai?” non è solo una delle prime “innocenti” domande che ci vengono rivolte da piccoli (insieme a “Come ti chiami?”), ma anche un test di adeguatezza cognitiva e il non saper rispondere può suscitare più di una preoccupazione genitoriale.
Il fatto è che il passare del tempo non è un fatto neutro: sin da piccoli impariamo che a ogni età corrispondono facoltà e passaggi di status, diritti e doveri, aspettative e vincoli. Così, diventiamo maturi a 18 anni, età in cui possiamo anche votare; possiamo essere eletti deputati a 25 anni e al Senato a 40 (almeno in Italia); andiamo in pensione a 67 anni ecc.
All’età sono associati anche passaggi simbolici. Ad esempio, fino a quale età possiamo essere considerati giovani? E quando diventiamo vecchi? Determinati comportamenti sono più adatti ai bambini, altri alle persone mature, altri ancora ai vecchi.
Insomma, l’età non è cosa da poco. Eppure – sembra suggerire Leopardi – non conoscere la nostra età ci rende, per certi versi, “immortali” nel senso che, privandoci di tutte quelle aspettative legate agli anni che trascorrono, permette di cullarci nell’illusione che il tempo non scorra, che non ci sarà mai una vecchiaia certificata dal raggiungimento di una determinata soglia temporale, che non ci saranno mali geriatrici, che rimarremo innocenti fino al termine della nostra vita.
Non conoscere l’età ci emancipa dall’idea di un inevitabile decadimento e dalla tristezza malinconica a quello associata. Ci libera dalla prigione della consapevolezza della morte, continuamente pungolata dall’avvicendarsi dei compleanni. Ci esonera dalle afflizioni che inevitabilmente scaturiscono dall’ostinato desiderio di conoscere l’ora della nostra fine. Ci affranca dallo scoramento causato dalla coscienza dell’approssimarsi dell’ultima ora.
E allora guardiamo con simpatia ai contadini di un tempo, ormai molto distante, che non sapevano dire la loro età. La loro ignoranza, prima oggetto di biasimo e ridicolo, diventa improvvisamente oggetto di desiderio. Solo così, infatti, possiamo alimentare l’illusione suprema: l’illusione di essere immortali.