A chi ci si rivolge quando si prega? Chi è l’interlocutore delle orazioni che, quotidianamente, i credenti recitano in tutto il mondo? La domanda è più che legittima, se si pensa che il destinatario delle preghiere è invisibile e inattingibile ai sensi. Forse la preghiera è il precipitato di un’illusione eterna quanto l’umanità e il suo interlocutore nient’altro che un ente immaginario o addirittura una parte della nostra psiche (il Super-io freudiano) proiettata all’esterno di noi stessi. O, forse, come sostengono i credenti, un ente superiore esiste davvero, anche se non possiamo vederlo.
Per Uffe Schjoedt e i coautori di “Highly religious participants recruit areas of social cognition in personal prayer” (2009), è possibile fornire una prima risposta a questi interrogativi adoperando i metodi delle neuroscienze. I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica (MRI) il cervello di un gruppo di giovani cristiani danesi di confessione luterana (20 soggetti in tutto: 6 maschi e 14 femmine), impegnati in cinque compiti: recitare preghiere altamente formulaiche (come il Padre Nostro), recitare preghiere spontanee, recitare formule non religiose (ad esempio, una filastrocca), recitare pensieri spontanei (ad esempio, dei “pensierini” per Babbo Natale), pronunciare espressioni non linguistiche (contare da 100 in giù). I tre compiti finali sono stati concepiti come formule di controllo. Lo scopo era indagare quali aree neurali del cervello si attivassero e come durante l’esercizio devozionale.
A ogni soggetto è stato chiesto di dedicare 30 secondi a ognuno dei cinque compiti e ogni compito è stato ripetuto sei volte. Ai soggetti è stato anche chiesto di eseguire ogni compito interiormente con gli occhi chiusi e con la massima concentrazione.
Il risultato finale mostra, per adoperare le parole degli autori, che i soggetti dell’esperimento hanno attinto «alle aree della cognizione sociale nell’esecuzione della preghiera personale, il che fa pensare che pregare Dio sia una esperienza intersoggettiva paragonabile a una “normale” interazione interpersonale». Detto altrimenti, chi prega si rivolge al suo Dio come si rivolgerebbe a un amico o, comunque, a un umano. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che, secondo Uffe Schjoedt, il cervello umano non si è evoluto per comunicare con enti invisibili e soprannaturali. Al contrario, il cervello umano si è evoluto per far fronte alle sfide poste dall’ambiente circostante, per sopravvivere alle minacce dei predatori e interagire con altri esseri umani.
Ciò potrebbe voler dire che, non essendo neurologicamente attrezzati per avere a che fare con un Dio, ci illudiamo di comunicare con lui (o lei) quando preghiamo, ma, in realtà, siamo impegnati in un compito molto umano in cui ci rivolgiamo ad altri umani.
Le neuroscienze potrebbero, dunque, dirci che quella di Dio è una questione illusoria e che rivolgersi a un’entità soprannaturale è come rivolgersi a un amico immaginario.
Uffe Schjoedt e gli altri autori dell’articolo sono, in realtà, consapevoli che questa conclusione è azzardata. Nessuna neuroscienza è in grado di rispondere all’eterno interrogativo riguardo l’esistenza o no di Dio. La risposta che esperimenti del genere ci danno, però, è che le attività di comunicazione con altre dimensioni sono codificate dal nostro cervello in maniera umana. Forse, troppo umana per non destare qualche sospetto.
Per altre riflessioni sulle preghiere, rimando al mio libro La sacra corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi, 2024).
Fonte: Uffe Schjoedt, Hans Stødkilde-Jørgensen, Armin W. Geertz, Andreas Roepstorff, 2009, “Highly religious participants recruit areas of social cognition in personal prayer”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, vol. 4, n. 2, pp. 199-207.