Immaginazione e fantasia nella società cosmopolita

Scrive l’antropologo Arjun Appadurai:

Nel corso degli ultimi vent’anni il peso dell’immaginazione e della fantasia è notevolmente cambiato, e precisamente nella misura in cui il processo di de-spazializzazione delle persone, delle rappresentazioni e delle idee ha acquisito nuova forza. In tutto il mondo sempre più persone considerano la propria esistenza nell’ottica di possibili forme di vita proposte dai mass-media in tutti i modi immaginabili. Questo significa che la fantasia è oggi diventata una prassi sociale; è in innumerevoli varianti il motore della configurazione della vita sociale di molte persone in società di vario tipo. […] anche l’esistenza più miserabile o quella più disperata, le condizioni più brutali e disumane, la peggiore ingiustizia sperimentata, sofferta, vissuta sono oggi aperte al gioco dell’immaginazione – prigionieri politici, bambini che lavorano, donne che sgobbano nei campi e nelle fabbriche di questo mondo. […] il nuovo potere che l’immaginazione ha acquisito nella produzione della vita sociale è indissolubilmente legato a rappresentazioni, idee e situazioni che vengono da altrove. […] Perciò un’affermazione dell’identità culturale legata al luogo è un azzardo pericoloso (Arjun Appadurai, cit. in Ulrich Beck, 2003, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna, pp. 114-115).

Quanto è importante l’immaginazione per le nostre vite di soggetti della società contemporanea? Quanto incide la fantasia sul modo in cui ci rappresentiamo il mondo? Le immagini mediatiche che introiettiamo insieme al cibo in ogni singolo momento delle nostre esistenze istituiscono i valori, le mete, le aspirazioni, gli standard di pulizia e decenza, di accettazione e repulsione a cui informiamo la nostra condotta sociale.

Pensiamo ai migranti che attraversano il pianeta spinti da rappresentazioni mutuate dai media mondiali; agli adolescenti che costruiscono i loro sogni adattandoli dai tanti mezzi di comunicazione social e di massa a cui sono esposti; a chi si converte a una religione dopo aver assistito a un evento in mondovisione (come si diceva un tempo).

È tutto un incrocio di immagini, filmati, icone che scorrono nelle nostre teste, soppiantando spesso le esperienze reali, condannate per principio proprio perché troppo reali e insufficienti al cospetto di quello che l’immaginazione sa darci e che spesso, come diceva Jean Baudrillard, è più vero del vero.

Come dice Appadurai, ognuno di noi è mosso da idee e situazioni che vengono da altrove, ma che, una volta entrate nelle nostre teste, non avvertiamo più come distanti o inarrivabili. È il paradosso della globalità esistenziale: il lontano può essere per noi più vicino del fisicamente vicino; il vicino può essere più invisibile del lontano e distante.

Solo che raramente ci soffermiamo a meditare su questo paradosso e continuiamo a vivere come se la vita fosse semplice e lineare.

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Offendere con le etimologie

Offendere può forse essere fonte di soddisfazione, soprattutto se l’offeso è una persona particolarmente diosa. Espone, però, inevitabilmente a malumori, ripicche, volgarità, possibili escalation, conseguenze penose. Insomma, è un’attività piuttosto rischiosa.

Un rimedio potrebbe essere ricorrere alle etimologie. Quando ingiuriate, non impiegate immediatamente quella parola, tanto efficace quanto compromettente, ma volgetela nella sua etimologia. L’esito sarà forse meno forte, ma più appagante. L’altro potrà non rendersi conto dell’offesa ricevuta, ma in voi rimarrà l’intimo piacere di aver raggiunto lo scopo senza generare conseguenze irreparabili.

Facciamo qualche esempio.

“Tamarro”, per designare una persona rozza e volgare, potrebbe indurre un certo risentimento nell’altro. Sapendo però che il termine deriva dall’arabo tammar ‘venditore di datteri’, da tamr, ‘dattero’, provate a usare “venditore di datteri” nel rivolgervi al vostro stimatissimo oltraggiando. Lui (o lei) non capirà, ma il vostro compiacimento sarà comunque roba da raffinati.

“Imbecille” è una parola che può giustamente suscitare sdegno e livore. La sua etimologia, dal latino imbecillis, composto da in “senza” e baculum “bastone”, può venirvi in soccorso. “Sei proprio uno ‘zoppo’” o “Guarda quel ‘senza bastone’” potrebbero essere sufficienti a scaricare la rabbia nei confronti di chi si comporta da vero imbecille.

“Cretino” viene dal provenzale crétin ‘cristiano’ ed è un caso etimologico abbastanza interessante. Chiamare qualcuno “cristiano” invece che “cretino” potrebbe indurre l’offeso a travisare le vostre intenzioni, ritenendole addirittura positive. E qui la soddisfazione potrebbe essere perfino maggiore, a meno che l’altro (o l’altra) non siano atei inferociti.

“Meretrice”, ovvero “prostituta”, è una voce dotta che deriva, in ultima analisi, da mèretrix “prostituta”, che viene da merère “meritare, guadagnare”. “Meritevole” potrebbe essere un modo sofisticato per designare chi vende il proprio corpo per denaro.

“Rimbambire”, infine, secondo una ipotesi significherebbe etimologicamente “tornare bambini”. Provate a rivolgervi a qualcuno definendolo “bambino di ritorno”. Rimarrà senz’altro sconcertato (o sconcertata), ma voi gongolerete sapendo bene che cosa intendete dire.

Il gioco potrebbe continuare. Consultando un buon dizionario etimologico, è possibile imbattersi in tante altre interessanti etimologie oltraggianti.

Qualcuno potrà obiettare che si tratta di un ripiego troppo raffinato e che, a volte, bisogna scaricare addosso all’altro tutta la potenza irriverente di una vera parolaccia.

Non sono d’accordo. A volte, un atteggiamento cerebrale è fonte di benessere almeno pari a quello che prova chi ricorre alle volgarità più crasse.  

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Adamo: più di quello che si pensa

Adamo fu il primo uomo creato da Dio secondo la Bibbia? Così come Eva fu la prima donna?

Questo è quello che ci viene insegnato da sempre ed è un insegnamento talmente radicato che saremmo sconvolti dall’apprendere che, in realtà, la parola Adam, come nome proprio, compare raramente al di fuori di Genesi 1-5. Essa, infatti, è presente nell’Antico Testamento per ben ventidue volte e sempre con l’articolo determinativo (ha in ebraico). In queste ventidue volte, il termine è un nome collettivo e significa umanità. Quando, invece, è privo di articolo, viene tradotto come nome proprio.

Così, ha-adam si traduce di solito con “l’uomo” (nel senso di un uomo in genere) o con “l’umanità” (secondo il contesto), mentre adam (senza ha) diventa “Adamo” (l’Adamo che conosciamo tutti). Ad esempio, in Genesi 1, 27, dove si legge “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”, il termine usato per “l’uomo” è proprio adam.

Non a caso, alcuni commentatori riferiscono che Adam non dovrebbe mai essere tradotto come un nome proprio, cosa che condurrebbe allo stravolgimento di migliaia di anni di credenze bibliche che hanno individuato in Adamo un uomo in carne e ossa, responsabile della perdita della grazia divina da parte dell’umanità. Se così fosse, l’umanità non sarebbe caduta nel peccato a causa dell’errore di un solo uomo, ma a causa di… se stessa (circostanza che appare, del resto, più sensata).

Forse, però, addossare la colpa dei nostri errori su un unico individuo – il nostro avo primigenio – serve una funzione psicologica: la funzione del capro espiatorio (altra figura che dobbiamo al folklore biblico). È più facile prendersela con un unico essere abominevole e lasciare che sia questi a essere responsabile di ogni nostro guaio, che cercare la colpa in noi stessi.

È un meccanismo ordinario di funzionamento della nostra psiche – ieri come oggi – che serve ad alleggerirci dall’errore e proiettarlo su un terzo, meglio se questi è lontanissimo nel tempo.

Se così stanno le cose, il povero Adamo sarebbe, dunque, solo la proiezione di tutti i nostri sbagli. “Sei tutti i miei sbagli” come cantavano i Subsonica qualche anno fa. E così la nostra coscienza “se ne lava le mani” (altra frase di origine biblica) e si fa bella ai propri occhi.

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(Ancora) Su vaccini ed effetto nocebo

In un post precedente, mi ero soffermato su una ricerca che dimostrava una importante relazione tra campagna vaccinale COVID-19 ed effetti avversi da effetto nocebo. In altre parole, evidenziavo come la scienza avesse ormai preso coscienza del fatto che molti effetti avversi segnalati da persone appena vaccinate fossero dovuti anche alle aspettative negative nei confronti delle conseguenze del vaccino contro la SARS-CoV-2.

Una recente ricerca sembra confermare tale relazione. Lo studio (una metanalisi), condotto da Haas, Bender, Ballou e altri ricercatori del Programme for Placebo Studies della Harvard Medical School di Boston Twelve, ha preso in considerazione 12 articoli (il più recente pubblicato il 14 luglio 2021) che riferivano il verificarsi di effetti avversi in 45.380 soggetti, dai 16 anni in su, sottoposti a procedura sperimentale. Di questi, 22.578 avevano ricevuto un’iniezione con una semplice soluzione salina (placebo), mentre 22.802 avevano ricevuto un vero vaccino.

Dopo la prima dose, il 35.2% di coloro a cui era stato somministrato il placebo aveva dichiarato di avvertire sintomi come mal di testa e sensazione di affaticamento. Dopo la seconda dose, tale percentuale era scesa al 31.8%. Per coloro che erano stati realmente vaccinati, invece, le medesime percentuali si assestavano al 46,3%, dopo la prima dose, e al 61,4%, dopo la seconda.

Gli effetti avversi avevano, dunque, colpito maggiormente i soggetti sottoposti a vaccinazioni reali, ma, secondo gli autori, quasi due terzi di tutti i sintomi verificatisi dopo la vaccinazione anti-Covid sono da associare alle aspettative negative dei soggetti vaccinati nei confronti della sostanza loro iniettata.

Si tratta del potente “effetto nocebo” che, sempre secondo gli autori, potrebbe avere tra le sue cause la tendenza dei media a soffermarsi a lungo e con ansia sugli effetti indesiderati delle inoculazioni, preparando, dunque, il terreno a un comportamento di eccessiva sorveglianza nei confronti delle sensazioni fisiche sperimentate dopo aver ricevuto una dose di vaccino.

L’effetto nocebo potrebbe, inoltre, indurre a fenomeni di misattribution, vale a dire di attribuzione alla sostanza assunta di effetti da imputare ad altre cause. Tale fallacia contribuisce a un caratteristico “effetto telescopio” per cui tutto ciò che accade nell’arco di tempo immediatamente successivo all’assunzione del vaccino viene, in un modo o nell’altro, attribuito alla subdola azione del vaccino

Tutto questo ha delle evidenti ripercussioni su quel fenomeno che gli anglofoni chiamano vaccine hesitancy, ossia gli atteggiamenti di timore, riluttanza o rifiuto a vaccinarsi (per svariati motivi), di cui gli effetti avversi sono un aspetto importante e ancora non ben indagato.  

Non a caso, gli autori insistono sulla necessità, oltre che eticità, di educare il pubblico sulla possibilità che, in seguito a un trattamento medico, possano svilupparsi reazioni nocebo. Ciò potrebbe, fra l’altro, ridurre la probabilità che abbiano effettivamente luogo.

Infine, informare il pubblico sulla possibilità che si verifichino reazioni nocebo potrebbe contribuire a ridurre i timori relativi alla dannosità dei vaccini contro il COVID-19, il che, a sua volta, potrebbe ridurre il fenomeno della vaccine hesitancy.

Riferimento:

Haas, J. W., Bender, F. L., Ballou, S. et al., 2022, “Frequency of Adverse Events in the Placebo Arms of COVID-19 Vaccine Trials: A Systematic Review and Meta-analysis”, JAMA Network Open, vol. 5, n. 1.

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Revenge bedtime procrastination

In italiano, “procrastinazione della notte per vendetta”. A leggere ciò che dicono alcuni siti e alcune riviste, il termine fa riferimento a un fenomeno conosciuto in Cina, dove la settimana lavorativa è di 72 ore, che consiste nel rimandare il più a lungo possibile il momento di andare a dormire per dedicare tempo a se stessi e alle proprie passioni, in una sorta di protesta vendicativa contro una società che pretende cronofagicamente di occupare tutto il nostro tempo in occupazioni alienanti.

In Occidente è ben nota la bedtime procrastination, ossia la tendenza a rimandare il riposo notturno per scrivere su WhatsApp, compulsare Instagram, Twitter o Facebook, collezionare video su YouTube, dedicarsi a incessanti videogiochi o a ore interminabili di binge watching televisivo. Si tratta di un fenomeno che preoccupa sempre più psicologi e pedagogisti in quanto spostare sempre più avanti il momento di dormire genera stanchezza perenne il mattino seguente e, dunque, l’incapacità di svolgere positivamente i propri ruoli diurni, in particolare quelli di lavoratore e di studente.

Qualche sociologo, come Byung-Chul Han, già parla di “società della stanchezza” o “società assonnata” per descrivere una tendenza che sembra interessare soprattutto i giovani, ma non solo. La revenge bedtime procrastination, invece, è altra cosa: essa rimanda a un precisa scelta compiuta per rimediare alla mancanza di sufficiente tempo libero durante le ore diurne. Una espressione di malessere interpretabile come tacito dissenso nei confronti dei ritmi accelerati e sempre più esigenti della società capitalistica. Un modo per recuperare il controllo di se stessi e ritrovare un senso di libertà, anche se forse illusorio.

Certo – ci  avvertono medici e moralisti – una carenza prolungata di sonno può causare problemi seri di salute: provoca squilibri nel sistema immunitario, riduce la concentrazione, deprime il tono dell’umore, aumenta il rischio di sviluppare malattie cardiache e ipertensione.

Ma la necessità di trovare tempo per sé, per le proprie cose, è sempre più avvertita oggigiorno, soprattutto in una società in cui proliferano quelli che l’antropologo David Graeber definisce bullshit jobs, ovvero occupazioni così totalmente inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così.

Psicologi e medici insistono: bisogna dormire 6-8 ore per notte, se si vuole vivere una vita sana. Ma forse la revenge bedtime procrastination è un modo irragionevole per protestare contro una società insana e priva di senso. E non importa se il mattino dopo, ti senti assonnato. Almeno, vivi la vita come vuoi viverla. E se non rendi tanto al lavoro, beh, tanto peggio per il lavoro!

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I numeri della Bibbia

Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero. Fecero cuocere la pasta che avevano portata dall’Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: erano infatti stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio (Esodo 12, 37-39. Bibbia CEI).

Sui numeri della Bibbia sono stati scritti numerosi articoli e saggi. Certamente, anche il lettore più acriticamente disposto a credere nei suoi racconti, non può non rimanere sconcertato dal fatto che, ad esempio, in base a quanto scritto in alcuni passi dell’Antico Testamento, Matusalemme sarebbe vissuto fino all’età di 969 anni; Noè fino a 950 anni; Adamo fino a 930; Lamech fino a 777 e così via. E questo in un’epoca in cui il numero massimo di anni a cui era possibile realisticamente aspirare era inferiore ai 50!

La cabala ha tentato di interpretare questi numeri in chiave simbolica per cui, ad esempio, l’età di Adamo – 930 anni – risulterebbe dalla sottrazione di 70, numero della perfezione, a 1000, numero di Dio. Ma se consideriamo che la simbologia religiosa è estremamente fertile, sarà sempre possibile attribuire un significato simbolico a qualsiasi numero, tanto non sarà mai possibile essere smentiti. Anzi, più una interpretazione simbolica appare misteriosa ed elegante, più sembrerà credibile.

Ma ritorniamo al brano di Esodo in apertura. Una fuga di seicentomila uomini (a cui bisogna aggiungere donne e bambini, per cui il numero dei fuoriusciti dall’Egitto potrebbe toccare addirittura i tre milioni) appare francamente inverosimile, soprattutto se si considera l’assenza di provviste atte a sfamare tante persone.

Più realistico pensare a una interpretazione errata del termine ebraico elef, che non significa solo “migliaia”, ma anche “capi di famiglia”. Mosè, dunque, avrebbe condotto con sé seicento famiglie, non seicentomila uomini, per un totale di seimila persone al massimo. Un numero sicuramente impegnativo, ma sempre più gestibile di tre milioni!

Le vicende della Bibbia sono relative a una “epoca del pressappoco” in cui i numeri non avevano la medesima rilevanza della nostra “epoca della precisione”. Non dovremmo, dunque, compiere l’errore anacronistico di attribuire a genti di quattromila anni fa la stessa cultura aritmetica che noi diamo per scontata.

Anche i numeri, infatti, contrariamente a quanto ci viene insegnato a scuola, risentono di una dimensione sociale e culturale.

Fonti:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 20-24; 47-48.

Koyrè, A., 1992, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino.

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La mutevole percezione dell’autostop

In base all’articolo 175, comma 7, capo B del Codice della Strada, la pratica dell’autostop è vietata in Italia sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali. Per la precisione, l’articolo citato stabilisce che:

sulle carreggiate, sulle rampe, sugli svincoli, sulle aree di servizio o di parcheggio e in ogni altra zona associata all’autostrada è vietato chiedere o offrire passaggi.

La ratio del divieto sta nel fatto che chiedere o offrire passaggi in autostrada è considerata una pratica pericolosa, potenzialmente in grado di causare incidenti o intasamenti.

Ciò che il Codice non rivela, però, è che, nel corso del tempo, la percezione dell’autostop come fatto sociale e culturale è radicalmente mutata. Come afferma la storica Linda Mahood, autrice dello studio “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, nella prima metà del XX secolo, una norma non scritta, ma diffusamente invalsa, stabiliva che dare un passaggio a un autostoppista fosse un gesto di generosità e umanità, da ricambiare con gratitudine, ma non con denaro. Addirittura, l’hitchhiking, come viene detto in inglese l’autostop, veniva descritto come un’occasione per dimostrare agli sconosciuti di essere persone bene educate, una sorta di esperienza edificante sia per chi concedeva sia per chi riceveva il passaggio.

L’autostop era, inoltre, pubblicamente lodato come una modalità avventurosa di viaggiare. Ad esempio, nel 1934, i giornali celebrarono le “gesta” di due diciannovenni che percorsero 2.300 miglia in autostop per incontrare il Primo Ministro canadese R. B. Bennett, raccogliendo l’autografo dei sindaci di ogni città che attraversavano. Una ragazza, la ventitreenne Nora Harris, che viaggiò da sola da Victoria a Halifax, nel 1938, dormendo e cucinando all’aperto, fu ricordata dai quotidiani canadesi con toni encomiastici.

L’autostop era, infine, incoraggiato come un modo per acquisire conoscenze su se stessi, il proprio e altri paesi. In definitiva, era percepito con un misto di paternalismo e cavalleria, bonarietà e indulgenza: un rituale basato su fiducia e mutuo rispetto, in grado di creare coesione sociale.

Fu a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo che la percezione dell’autostop cominciò a cambiare. La condotta ingegnosa, avventurosa e lodevole di un tempo cominciò a suscitare dubbi e apprensioni, anche in seguito a casi di autostoppisti rapinati e uccisi dai loro “benefattori” negli Stati Uniti.

Le autorità si mostrarono preoccupate soprattutto per il sesso femminile. I giornalisti cominciarono a dare grande rilievo ai casi di giovani donne violentate dopo aver chiesto un passaggio a uno sconosciuto. In alcuni articoli, trapelò l’accusa che “se la fossero cercata” e che la loro condotta non fosse del tutto innocente. Il fatto, poi, che a chiedere passaggi in strada fossero hippie, capelloni e giovani considerati “non affidabili” contribuì a gettare più di un velo di sospetto sulla figura dell’hitchhiker.

Ben presto, l’autostop venne ad essere considerato una pratica rischiosa sia per gli autostoppisti sia per gli automobilisti: nessuno poteva essere sicuro di chi avrebbe trovato dall’altra parte.

In tempi recenti, film come The Hitcher (1986), Say Yes (2001), The Hitchhiker (2007) hanno contribuito ad associare alla figura dell’autostoppista significati macabri e inquietanti che sono ormai sedimentati nell’immaginario collettivo. A ciò hanno contribuito anche leggende metropolitane come quella dell’autostoppista fantasma, che narra, pur in molteplici varianti, la vicenda di una donna (o una bambina o una ragazza) misteriosa che, salita su un’automobile, scompare nel nulla dopo avere avvisato l’automobilista di un pericolo. Alla fine, quest’ultimo scopre che la ragazza era morta in un incidente stradale.

Da pratica di coesione sociale, generosità e condivisione, l’autostop è, dunque, diventato una condotta rischiosa, potenzialmente criminogena e tipica di vagabondi e marginali. Una trasformazione radicale che ne ha completamente stravolto lo status iniziale, trasformando l’autostoppista in una figura quasi deviante o almeno temibile.

Vedremo nel tempo se essa scomparirà del tutto dal novero delle figure incontrate in strada o se si rinnoverà in qualche forma al momento non prevedibile.

Riferimento:

Linda Mahood, 2016, “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, Journal of Social History, vol. 49, n. 3, pp. 647–670.

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Perché non c’era posto in albergo per Gesù?

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo (Luca 2, 1-7. Bibbia CEI).

Il brano di Luca che descrive la nascita di Gesù e la sua deposizione in una umile mangiatoia ha sempre suscitato sorpresa e interrogativi. Irresistibilmente viene alla mente l’immagine di Giuseppe e Maria alla ricerca disperata di un albergo che non riescono a trovare. Perché? Perché a causa del censimento tutti gli alberghi erano occupati (come quando, ancora oggi, si partecipa a un evento senza prenotare una stanza e si rimane senza alloggio)? Perché i due sprovveduti non erano avvezzi a dormire in luoghi estranei? Perché il futuro salvatore del mondo doveva nascere in un luogo modestissimo per volere di Dio in modo che risaltasse ancora di più la sua condizione speciale?

In realtà, questi interrogativi potrebbero essere viziati da un errore di traduzione. Il termine greco utilizzato da Luca e tradotto con “albergo” è katàlyma, che, secondo gli esperti, può significare anche “caravanserraglio” ossia un recinto scoperto nel quale si chiudevano le bestie da soma, oppure “stanza” come in un altro passo di Luca (22, 11) dove Gesù dice agli apostoli di chiedere al padrone di casa: «Dov’è la stanza [katàlyma] in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?» (Bibbia CEI).

Insomma, niente a che vedere con alberghi o hotel di lusso, come anacronisticamente potremmo pensare. Resta il fatto che Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare né una stanza né un recinto per animali. La ragione potrebbe essere la condizione di puerpera di Maria. Secondo la legge ebraica, infatti, la puerpera rimaneva impura per 40 o 80 giorni (40 per il figlio maschio, 80 per la femmina) e rendeva impuri gli oggetti e le persone con cui veniva in contatto. Non poteva, dunque, essere ospitata in una stanza – katàlyma – insieme ad altre persone.

Se le cose stanno così, l’umiltà della condizione natale di Gesù, più che a un presunto volere divino, potrebbe essere dovuta a una semplice circostanza imposta dai costumi locali. Spesso i teologi attribuiscono disegni ultraterreni a fatti che trovano la loro ragione in spiegazioni molto umane, distorcendo il significato di eventi che di numinoso, a ben vedere, hanno poco.

Fonte:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 95-97.

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La “barbarie” del taglione

La legge del taglione venne data da Mosè al popolo d’Israele in tre occasioni.

La prima volta in Esodo 21, quando Mosè ricevette di fronte al monte Sinai una serie di norme che prefiguravano un embrione di diritto penale: «Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Esodo 21, 22-25. Bibbia CEI).

La legge del taglione era posta accanto ad altre leggi che oggi farebbero inorridire per la loro crudeltà. Ad esempio: «Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte» (Esodo 21, 17) oppure «Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è acquisto del suo denaro» (Esodo 21, 20-21).

La legge del taglione venne ribadita in Levitico 24, 17-20: «Chi percuote a morte un uomo dovrà essere messo a morte. Chi percuote a morte un capo di bestiame lo pagherà: vita per vita. Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro». Anche in questo caso, la legge del taglione è posta accanto ad altre leggi tremende, come: «Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte» (Levitico 24, 16).

La terza e ultima volta è ricordata in Deuteronomio 19, 21, quando gli israeliti stavano per entrare nella terra promessa: «Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede».

Sarebbe troppo semplice giudicare la legge del taglione come una modalità barbara e incivile di fare giustizia, una forma di vendetta primitiva e inumana. Del resto, nel nostro ordinamento penale, essa non è ammessa in quanto lo Stato possiede il monopolio della violenza fisica legittima.

Ma è proprio questo il punto: in un’epoca in cui non esisteva uno Stato come noi lo concepiamo, non esisteva un diritto penale come lo intendiamo oggi, non esistevano né poliziotti né palazzi di giustizia, era facile, in occasione di fatti di sangue, oltrepassare la misura e abbandonarsi a vendette sanguinose che imponevano una pena ben superiore al reato commesso dall’autore del delitto.

Così, se un uomo perdeva un occhio nel corso di una zuffa, non era infrequente che il suo clan togliesse la vita al responsabile; azione che poteva innescare, proprio perché avvertita come eccessiva, una catena, potenzialmente infinita, di reazioni altrettanto sanguinose e dalle conseguenze distruttive per tutta la comunità.

La legge del taglione venne, dunque, a stabilire un principio di equità: la perdita di un occhio non poteva che essere “riparata” dalla perdita di un altro occhio; quella di una mano dal taglio di un’altra mano e così via. Si castigava duramente il colpevole, circoscrivendo la ritorsione entro i confini esatti del delitto. Si limitava la potenziale pericolosità della vendetta incontrollata, ponendo limiti alle richieste della vittima e tutelando, ancorché in modo rozzo, i diritti degli individui.

Siamo ancora lontani da una “giustizia giusta”, ma certamente la legge del taglione non dovrebbe essere percepita etnocentricamente come la quintessenza della barbarie, come ancora oggi si equivoca. Si trattava di un diritto poco compassionevole, ma a suo modo riequilibrativo, teso a risanare il legame con la società rotto dal fatto criminoso. Principio che oggi è considerato fondamentale nella cosiddetta “giustizia riparativa”.

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Primogeniti o primizie?

Le dieci piaghe d’Egitto furono sciagure che, secondo il racconto di Esodo, flagellarono per volontà divina il faraone e gli Egizi, colpevoli di ostacolare la partenza degli Ebrei per la Palestina. È possibile ricordarle brevemente: 1) l’acqua del Nilo tramutata in sangue; 2) l’invasione delle rane; 3) la piaga delle zanzare (o dei pidocchi); 4) la piaga dei mosconi; 5) la morte del bestiame; 6) la piaga delle ulcere; 7) la piaga della grandine; 8) la piaga delle locuste; 9) l’oscuramento del cielo (le tenebre); 10) la morte dei primogeniti.

Il racconto di Esodo è stato oggetto di numerosissime interpretazioni: religiose, storiche, filosofiche, metaforiche, geologiche, archeologiche, fisiche, chimiche ecc. Si è scoperto, fra l’altro, che esso contiene storie scritte da autori diversi e che cinque piaghe sono più antiche delle altre.

Risultano molto interessanti i tentativi di spiegare scientificamente le piaghe, soprattutto in considerazione del fatto che l’Egitto è stato effettivamente colpito da numerose catastrofi naturali nel corso della sua storia. Ad esempio, l’area del Sinai è stata segnata da terremoti e nubifragi molto violenti che hanno sconvolto l’immaginario delle popolazioni locali.

La mutazione delle acque del Nilo in sangue potrebbe essere dovuta al fenomeno dei cianobatteri, microrganismi che, oltre a provocare una colorazione rossa delle acque, le privano di ossigeno, producendo tossine nocive per i pesci che sono predatori di rane.

Ciò potrebbe aver favorito una proliferazione infestante di rane che, abbandonate le acque fetide del Nilo, potrebbero essersi diffuse nelle terre circostanti, morendo però a causa della scarsità di cibo (le rane si nutrono di zanzare). Ciò, a sua volta, potrebbe aver innescato altre due piaghe: quella delle zanzare e quella dei mosconi. Il morso di questi insetti potrebbe essere stato la causa di infezioni letali per il bestiame (quinta piaga), diffondendo un terribile virus. Le ulcere della sesta piaga potrebbero essere state provocate dalla pseudimonas mallei, malattia fortemente contagiosa, trasmessa dal contatto con le mosche.

La grandine della settima piaga potrebbe essere stata generata da un freddo improvviso, che, a sua volta, potrebbe aver causato le condizioni idonee alla proliferazione di insetti come le locuste (ottava piaga). L’oscuramento del cielo, durato tre giorni, potrebbe essere attribuibile a una grande tempesta di sabbia, non insolita nell’area, o a un violento terremoto seguito da un’imponente eruzione di polveri.

L’ultima piaga, quella che risultò decisiva nel far cambiare idea al faraone, fu la morte dei primogeniti d’Egitto, uomini e animali. Così viene descritta in Esodo:

Il Signore disse a Mosè: «Ancora una piaga manderò contro il faraone e l’Egitto; dopo, egli vi lascerà partire di qui. Vi lascerà partire senza restrizione, anzi vi caccerà via di qui. Dì dunque al popolo, che ciascuno dal suo vicino e ciascuna dalla sua vicina si facciano dare oggetti d’argento e oggetti d’oro. Ora il Signore fece sì che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani. Inoltre Mosè era un uomo assai considerato nel paese d’Egitto, agli occhi dei ministri del faraone e del popolo. Mosè riferì: «Dice il Signore: Verso la metà della notte io uscirò attraverso l’Egitto: morirà ogni primogenito nel paese di Egitto, dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito della schiava che sta dietro la mola, e ogni primogenito del bestiame. Un grande grido si alzerà in tutto il paese di Egitto, quale non vi fu mai e quale non si ripeterà mai più. Ma contro tutti gli Israeliti neppure un cane punterà la lingua, né contro uomini, né contro bestie, perché sappiate che il Signore fa distinzione tra l’Egitto e Israele (Esodo 11, 1-7. Bibbia CEI).

Una possibile spiegazione di questa piaga è riconducibile alla scarsità di generi alimentari disponibili dopo le nove piaghe precedenti e a una infezione da micotossine presente negli strati superiori del grano immagazzinato, quello che veniva offerto ai primogeniti, umani e animali. Gli ebrei, invece, sarebbero sfuggiti a tale avvelenamento perché seguivano una dieta diversa.

Secondo un’altra interpretazione, gli Egizi, provati psicologicamente dalle catastrofi precedenti, potrebbero aver sacrificato i loro primogeniti per placare l’ira delle divinità. L’archeologia ha infatti rivelato che, all’epoca, non era insolito sacrificare bambini per cercare la benevolenza degli spiriti. Un esempio è fornito dalla vicenda del re Moab che, in battaglia, davanti alla sconfitta con gli Israeliti, «prese il figlio primogenito, che doveva regnare al suo posto, e l’offrì in olocausto sulle mura» (2Re 3, 27. Bibbia CEI).

Questa interpretazione è, però, resa discutibile da quanto riferisce Esodo poco prima, che riduce la strage annunciata in 11, 1-7, alla morte del solo primogenito del faraone:

Il Signore disse a Mosè: «Mentre tu parti per tornare in Egitto, sappi che tu compirai alla presenza del faraone tutti i prodigi che ti ho messi in mano; ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il mio popolo. Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!» (Esodo 4, 21-23. Bibbia CEI).

Come scrivono Roberto Beretta e Elisabetta Broli, la questione dei primogeniti potrebbe essere frutto di un errore di traduzione: i bikkurim, parola con la quale ci si riferisce ai primi nati, «non sarebbero stati i primogeniti maschi, ma le primizie dei prodotti del suolo, distrutte dalle precedenti nove piaghe. Solo più tardi il termine avrebbe acquistato un senso “umano”».

Non di una strage di esseri umani e di animali, quindi, si tratterebbe, ma di “primi frutti”. Sia come sia, l’intero racconto delle dieci piaghe potrebbe essere interpretato come la traduzione in chiave mitica e religiosa di eventi naturali devastanti subiti dagli Egizi al tempo di Mosè. È noto, infatti, che conferire a un fenomeno fisico brutale un significato religioso può aiutare a sopportarlo meglio. Come dire: “Se Dio lo vuole… non possiamo farci niente! Anzi, possiamo condurre le nostre vite in modo che non accada mai più”.

Un’esistenza che osserva i principi morali può, allora, divenire lo scudo simbolico che rassicura e protegge da quelli che apparirebbero come ciechi e casuali sconvolgimenti della natura.

Fonti:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 39-42.

Ravasi, G., 2001, Esodo, Queriniana, Brescia.

Siro, A., “La realtà storica. Le piaghe d’Egitto”, Il postalista

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