“Non si agiti tanto!” ovvero la subdola arte del tone policing

“Ma perché si agita tanto?”. “La vedo un po’ su di giri stasera. È in difficoltà?”. “Non si scaldi tanto!”. “Si dia una calmata!”. “Non facciamoci prendere dalla foga!”. “Ma che le prende oggi?”.

Quante volte abbiamo sentito frasi del genere durante dibattiti pubblici accesi in cui un interlocutore espone con calore le sue tesi, mentre l’altro, con un sopracciglio alzato e un fare sussiegoso, lo invita alla calma? Sembrerebbero frasi innocue, quasi di buon senso. Del resto, che c’è di strano nel chiedere alla persona con cui si è impegnati in una conversazione di moderare i toni? Una richiesta del genere non rientra forse tra le buone maniere del vivere civile? Non rappresenta un luogo comune del galateo delle persone degne di rispetto?

Eppure, a un occhio più attento non sfuggirà il fatto che simili inviti hanno spesso un sottile quanto insospettato scopo ulteriore: uno scopo mai dichiarato, anzi ineffabile, che, tuttavia, in ambito retorico, rimanda a un fenomeno con un termine preciso, di cui si comincia a parlare con una certa frequenza: tone policing.

Con il termine tone policing (anche tone argument, tone trolling o tone fallacy; in italiano “controllo/sorveglianza/vigilanza del tono”) si intende una strategia retorica attraverso cui si mira a screditare l’avversario in una contesa dialettica, criticando, sminuendo o ridicolizzando il tono di voce o le modalità paraverbali e non verbali con cui espone la sua tesi, ed evitando, così, di entrare nel merito della discussione.

Si tratta di una variante dell’argumentum ad hominem, celebre argomento retorico consistente nel deviare il nucleo della contesa dialettica dall’affermazione dell’interlocutore (ciò che dice) all’interlocutore stesso (chi lo dice), soprattutto quando non si hanno argomenti da far valere contro l’avversario (Facciolo, 2025, pp. 166-170).

Il tone policing è, di solito, adoperato da chi è in posizione di potere o privilegio e non intende o non è in grado di ribattere a quanto sostenuto dall’interlocutore. Trova applicazione tipicamente contro persone che rappresentano gruppi minoritari, emarginati o discriminati o attivisti sociali che rivendicano e promuovono idee o punti di vista contrari a quelli dominanti. Dal momento che tali persone non hanno spesso l’occasione di argomentare le proprie tesi in pubblico confrontandosi con interlocutori che occupano posizioni sociali elevate e sono abituati a dominare la scena verbale, accade talvolta che alzino i toni della contesa e si infervorino, difendendo le proprie tesi con vigore e frenesia.  

In questi casi, chi occupa ruoli di potere o comando può provare a delegittimare le tesi dell’avversario, aggredendo i suoi toni e la sua emotività, come se, ad esempio, la rabbia con cui si espone un argomento ne invalidasse per ciò stesso il valore di verità. Naturalmente, il fatto che un individuo sostenga la sua posizione con passione, si esprima con veemenza o “diventi rosso in viso” nel parlare non dice nulla sulla veridicità o no delle proposizioni formulate. L’emotività con cui viene presentato un argomento non è direttamente correlata al suo grado di aderenza alla realtà.

Tuttavia, aggredire le emozioni degli altri è una strategia che sembra funzionare, a giudicare dalla frequenza d’uso della stessa nelle dispute pubbliche. Ciò accade perché le persone tendono a pensare che toni concitati siano automaticamente rivelatori di posizioni fallaci, in quanto emotive e poco razionali. In effetti, provocare l’altro chiedendogli di moderare i toni permette a chi pratica il tone policing di apparire come una persona seria e razionale, a differenza dell’esagitato avversario. Inoltre, il tone policing funziona come arma di screditamento dell’avversario, perché procura irritazione in chi è già calorosamente assorto nel proprio discorso; irritazione che viene strumentalizzata dall’interlocutore a riprova della irrazionalità e inaffidabilità della posizione del suo contendente, secondo un circolo vizioso a tutto vantaggio di chi chiede di “moderare i toni” (“Ma lei si scalda sempre così facilmente?”).

Molta della forza retorica di questa strategia discende dal fatto che la maggior parte degli individui non è consapevole di che cosa sia e quali conseguenze essa produca. Semplicemente, la subisce senza porsi alcun problema. Si tratta, invece, di una potente arma verbale di cui tutti dovrebbero prendere coscienza. Se non altro per evitarne le sgradevoli conseguenze.

In alcuni casi, poi, il tone policing si accompagna a una ulteriore, subdola strategia che ha l’effetto di infliggere il colpo di grazia all’avversario: moderati i toni, spenti gli ardori passionari, ricondotto il confronto a una parvenza di dialogo civile, l’interlocutore in posizione dominante può cogliere di sorpresa il suo oppositore, inveendo, a sua volta, contro di lui, rivolgendogli improperi di ogni tipo, attaccandolo furiosamente. La subitanea quanto inaspettata inversione di ruoli avrà l’effetto di sconvolgere l’interlocutore in posizione subalterna, ammutolendolo definitivamente. Certo, occorre un vero maestro di retorica per capovolgere la situazione in questo modo, ma, quando ciò si verifica, l’effetto è dirompente, se non addirittura traumatico.

Detto questo, è anche vero che alzare la voce, esprimersi con energia, rivolgersi con trasporto al proprio pubblico, adoperando magari turpiloquio e parole volgari, sono tattiche che, negli ultimi decenni, sembrano caratterizzare la comunicazione politica e procurare consenso a chi le mette in pratica perché permettono di far percepire il comunicatore come “uno di noi” e, dunque, avvicinare i politici ai propri elettori (Capuano, 2007).

Queste strategie godono della facoltà di interrompere il gioco delle maschere, aiutando a ripristinare l’immediatezza e la trasparenza delle forme di comunicazione. Esse sembrano conferire autenticità, tono, impeto e stile pungente alle parole. Marcano una sintassi della vicinanza che scatena empatia e identificazione con chi non ha bisogno di paroloni per affermare il suo punto di vista. Mirano all’essenza, non alla farragine delle cose. O almeno così pare. Di qui l’apprezzamento diffuso del politico che impreca, dell’amministratore che “parla come mangia”, del candidato che dice pane al pane e vino al vino. Il gioco della verità condotto dal turpiloquio, ad esempio, è talmente trascinante da indurre a pensare che ciò che è espresso con il ricorso alla “parolaccia” o alla bestemmia sia immediatamente credibile. Beninteso, si tratta di comportamenti censurati pubblicamente (si pensi al demagogo dal linguaggio rozzo che è ripreso da tutta la stampa “seria”) ma che, nondimeno, provocano sensazioni di autenticità, franchezza, spontaneità. E per questo sono apprezzati.

Tali forme comunicative, però, sono agite, di solito, in occasione di comizi elettorali o altri eventi pubblici in cui l’oratore si rivolge a una molteplicità di individui – modalità uno-a-molti – e non teme il contradditorio, anzi sa già che chi lo ascolta condivide le sue idee e apprezza i suoi modi diretti e grossolani. Inoltre, in queste circostanze, chi parla si trova in una posizione asimmetrica di dominio e ha quindi il controllo della ribalta comunicativa. Tutt’altra situazione, dunque, rispetto a quella in cui si verifica il ricorso al tone policing.

In conclusione, la prossima volta che qualcuno, nel corso di una discussione, vi chiederà di “abbassare i toni” o di “non agitarvi troppo” mentre esponete il vostro punto di vista, sappiate che, se occupa una posizione sociale superiore alla vostra, probabilmente non lo fa perché ha a cuore il vostro stato d’animo o la vostra serenità, ma perché vuole ridimensionare quello che dite.

Riferimenti:

Capuano, R. G., 2007, Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia, Costa & Nolan, Milano.

Facciolo, P., 2025, Fallacie logiche, HarperCollins, Milano.

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