“Mussolini ha fatto anche cose buone”

Un controverso giudizio politico? Una discutibile espressione nostalgica? Un tentativo di riabilitare una pagina oscura della storia d’Italia? C’è indubbiamente tutto questo. Ma “Mussolini ha fatto anche cose buone” è oggi soprattutto un tormentone molesto, una locuzione annidata nei recessi più reconditi del cervello, un luogo comune che, nel migliore dei casi, non esprime altro che una banale ovvietà. Anche se pochi se ne rendono conto. Forse perché il ripeterla frequentemente genera quello che gli psicologi definiscono “effetto familiarità”: il fatto di reiterare determinate parole fa sì che esse, al di là del loro significato, entrino a far parte del bagaglio di conoscenze consuete degli individui, acquisendo una connotazione positiva che rende estremamente difficile liberarsi criticamente del contenuto ripetuto, soprattutto se la ripetizione incessante inizia nell’infanzia (Cialdini, 1995). E liberarsi criticamente di “Mussolini ha fatto anche cose buone” è estremamente difficile.

La frase ha (almeno) due livelli di lettura: il primo ha una valenza retorico-politica; il secondo una valenza “apodittica”, nel senso che esprime una verità talmente evidente e banale che i più ne sono abbagliati e non riescono a scorgerla, così come i personaggi del racconto di Edgar Allan Poe (1809-1849) La lettera rubata (1845) non riuscivano a scorgere la lettera che pure era lì, in bella mostra davanti a loro. Vediamo perché.

In base al primo livello, la frase viene pronunciata per ragioni di interesse politico: per far passare, cioè, l’idea che, tutto sommato, il fascismo fu un periodo apprezzabile, da cui gli italiani trassero “anche” importanti benefici. Dire “Mussolini ha fatto anche cose buone” diventa, così, il primo passo per riabilitare retoricamente il fascismo e renderlo, in qualche modo, accettabile. Facendo leva sulla parola “anche” che, di per sé, dovrebbe comunicare un’aggiunta residuale – Mussolini fece alcune “cose buone” in aggiunta alle tante “cose cattive” – questa lettura propone, in realtà, un subdolo scivolamento semantico per cui quella che dovrebbe essere una mera particella aggiuntiva finisce con l’acquisire il significato dell’avverbio “soprattutto”, assegnando alla frase un significato opposto a quello che prima facie dovrebbe avere.

Chi ripete il ritornello delle “cose buone” fatte da Mussolini per ragioni politiche farà notare, ad esempio, che Mussolini “ci diede le pensioni, la tredicesima e la Cassa Integrazione”, “bonificò le paludi”, “costruì strade, scuole, case”, “sconfisse la mafia e la corruzione”, “fece arrivare i treni in orario”, “diede ordine e sicurezza all’Italia” e via dicendo. Così, attraverso la figura retorica dell’accumulazione, mettendo insieme meriti eterogenei, reali o presunti, creerà un efficace effetto argomentativo che persuaderà l’interlocutore più superficiale della “bontà” dell’opera del Duce.

Ricorrendo, poi, alle figure retoriche dell’ellissi (che consiste nell’omissione di qualche elemento che resta comunque sottinteso nella frase) e della reticenza (che consiste nell’improvvisa interruzione di un messaggio con la soppressione di una sua parte), il ripetitore del ritornello tralascerà di menzionare le (molto maggiori) cose “non buone” fatte da Mussolini: il ricorso sistematico allo squadrismo, le continue pratiche di violenza e demagogia, i brogli, le intimidazioni e le rappresaglie contro gli oppositori (come l’uccisione di Matteotti), la repressione della libertà di organizzazione, i partiti messi fuori legge, l’abolizione dei sindacati, la proibizione di scioperi e serrate.

Più in generale, lo stesso “dimenticherà” (o farà finta di dimenticare) che il fascismo impose un regime totalitario, un regime, cioè, caratterizzato dal controllo assoluto e capillare dello stato sui cittadini, in ogni aspetto della loro vita. Questo controllo si manifestò attraverso la repressione, la centralizzazione del potere in un unico individuo o partito, l’assenza di libertà e pluralismo; un controllo assoluto sulla stampa e la soppressione dei giornali di opposizione; una insofferenza estrema nei confronti di qualsiasi forma di critica al governo, allo Stato e ai loro rappresentanti; la reintroduzione della pena di morte per i reati contro la sicurezza dello Stato; l’istituzione di un tribunale speciale per giudicare i delitti contro lo Stato e il regime. Tutte cose che, per noi, abituati a vivere in un regime democratico, sarebbero intollerabili, e che superano per importanza ogni possibile aspetto positivo del fascismo.

A questo punto, il sostenitore del “buonismo” di Mussolini ricorderà, forse, che il fascismo proclamò le leggi razziali del 1938 e l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale nel 1940, fatti che, aggiungerà invocando la logica dell’eccezione, sarebbero, in fondo, le uniche due pecche addebitabili al Duce. Ma ometterà inevitabilmente di dire (anche per ignoranza) che le “cose buone” attribuite al leader fascista, a ben vedere, così eccezionali non furono.

Come osserva lo storico Francesco Filippi, ad esempio, la convinzione che Mussolini ci abbia dato le pensioni è un falso perché il sistema pensionistico in Italia risale al 1895, quando Crispi era capo del Governo, e ben prima del Ventennio erano già stati approvati una serie di provvedimenti assistenziali e previdenziali. Non è neanche corretto affermare che Mussolini abbia istituito la tredicesima. In realtà, questa fu concessa solo agli impiegati del settore industriale, in un contratto collettivo nazionale che imponeva due ore di lavoro in più al giorno “per particolari mansioni”, oltre le dieci già previste. Fu solo nel 1960 che il beneficio della mensilità in più fu estesa a tutti i lavoratori (Filippi, 2019, pp. 7-17).

Solo parzialmente vera è l’idea – anche questa considerata da alcuni una verità inconfutabile – secondo cui Mussolini riuscì nell’impresa di bonificare i terreni paludosi italiani. In realtà, su otto milioni di ettari di terreni bonificabili, il leader fascista riuscì a portare a termine poco più del 6% del lavoro preventivato, nonostante il lancio di un immenso battage propagandistico di cui ancora oggi conserviamo memoria (Filippi, 2019, pp. 18-30).

Frutto di una capillare opera di censura della stampa e di uno stretto controllo sull’informazione circolante in Italia, è l’idea, giudicata da molti una verità assoluta, secondo cui “quando c’era Lui, i treni arrivavano sempre in orario”. In realtà, in epoca fascista, tutte le notizie riguardanti scandali, omicidi insoluti, malagestione della cosa pubblica, inadempienze governative ecc., che potevano mettere in cattiva luce l’operato del Governo e delle forze dell’ordine, venivano rigorosamente censurate, al punto che gli italiani finirono con il credere che certe cose non avvenissero mai o quasi. Accadde, così, che la mancata notiziabilità di alcuni eventi coincise con la loro “scomparsa”. Tra questi, il fatto che i treni arrivassero in ritardo o che vi fossero reati rimasti impuniti. L’opera efficacissima della propaganda cancellò dalla mente delle persone del tempo l’idea che in Italia avessero luogo “cose brutte” (Filippi, 2019, pp. 120-121).

Insomma, attraverso un abile lavoro retorico, che si regge su accumulazioni, reticenze, ellissi, slittamenti semantici, opportuni oblii e ignoranza, il primo livello di lettura del luogo comune secondo cui “Mussolini ha fatto anche cose buone” propone una interpretazione interessata e di parte della frase, le cui finalità sono comunque scoperte e trasparenti: assolvere il fascismo dalle sue macchie ed esaltarne i meriti.

Al contrario, il secondo livello di lettura – quello che ho denominato “apodittico” – è paradossalmente meno facile da cogliere, nonostante la sua assoluta evidenza.

Pensiamoci bene. Il fascismo ha governato l’Italia per vent’anni e si è retto su un consenso di massa indubitabile, seppure non universale e non sempre costante. Ora, non è possibile governare un paese per vent’anni senza fare delle cose che possono risultare utili (“buone”) ai cittadini. Nemmeno il tiranno più sadico o crudele riuscirebbe in un’impresa del genere (forse neppure un idiota). Ad esempio, un dittatore come Stalin (1878/79-1853), che stabilì un vero e proprio regno del terrore e fu responsabile della morte di milioni di persone, riuscì a promuovere, sebbene a carissimo prezzo, la trasformazione radicale della struttura economica russa attraverso la collettivizzazione dell’agricoltura e l’avvio a tappe forzate del processo di industrializzazione del paese. Augusto Pinochet (1915-2006), autore di crimini atroci contro l’umanità, diede impulso alla vita economica del Cile, facendolo progredire industrialmente (almeno in parte). Il leader libico Muammar Gheddafi (1942-2011), giunto al potere dopo un colpo di stato e accusato di crimini contro l’umanità, ha rilanciato l’economia libica e realizzato colossali infrastrutture, fra cui un acquedotto di tremila chilometri che pompa l’acqua fossile del Sahara fino alla costa libica.

A parte ciò, è noto che dittatori e tiranni – personaggi spesso egocentrici, maniacali, narcisisti e demagogici – amano “fare cose”, se non altro per mostrare il loro valore ai contemporanei e ai posteri o anche solo per autocelebrarsi. Opere pubbliche (come la costruzione dell’EUR), iniziative paternalistiche a favore del popolo, provvedimenti riguardanti l’assistenza dei più poveri, innovazioni legislative radicali che spesso rispondono al comune sentire sono da sempre il marchio di fabbrica di despoti e autocrati. È inevitabile, dunque, che essi facciano anche “cose buone”, cose, cioè, che hanno ricadute positive sulle masse, talvolta anche loro malgrado. Ad esempio, Mussolini dedicò i suoi sforzi all’opera di bonifica dei terreni paludosi soprattutto nell’interesse della borghesia agraria, ma ciò non toglie che tale opera ebbe ricadute positive anche sui semplici cittadini.

Allo stesso modo, il fatto che Mussolini non abbia “inventato le pensioni” non significa che non abbia sviluppato le politiche previdenziali e assistenziali già in atto prima del suo avvento, attraverso, ad esempio, l’istituzione dell’INFPS (la futura INPS), che diede lavoro a circa 8000 persone nel 1941, tanto che lavorare per questo ente «divenne un sogno per una buona fetta della piccola borghesia impiegatizia, zoccolo duro di consenso al fascismo» (Filippi, 2019, p. 12). Misura clientelare? Demagogia populistica? Senz’altro. Ma ciò non toglie che tanti italiani ne trassero una importante fonte di occupazione e di reddito.

Il Codice Rocco – il codice penale approvato in piena epoca fascista nel 1930 – è ancora oggi in vigore, nonostante numerose modifiche, a dimostrazione del fatto che alcune “cose” sono sopravvissute al regime e vengono considerate ancora “buone” attualmente. Il complesso urbanistico dell’EUR, già citato, fu concepito in vista dell’esposizione universale del 1942, che avrebbe consentito di celebrare i vent’anni della marcia su Roma e accreditare ulteriormente il regime al cospetto del mondo. Eppure, esiste ancora oggi.

Se Mussolini abbia fatto o no cose buone è, dunque, un falso problema. Chiunque sia al potere “fa cose”, se non altro per attribuirsi meriti e onori. E alcune di queste “cose” finiscono con l’avere un qualche impatto positivo sulla popolazione. Mussolini non sfugge a questa considerazione. E non c’è nemmeno bisogno di scomodare l’altro luogo comune degli “italiani, brava gente”, secondo cui gli italiani sarebbero naturalmente inclini alla benevolenza e immuni dalla disumanità verso il nemico in guerra, a differenza di altri popoli (Del Boca, 2005).

Il problema sorge quando questa ovvia, banale, apodittica verità – tutti i potenti, perfino i dittatori, “fanno cose”, anche “buone” – diventa un’arma retorica al servizio di interessi politici che vorrebbero redimere, se non glorificare, periodi oscuri della storia per riproporne programmi e contenuti.

Per questo, dobbiamo sempre guardarci da chi sostiene con convinzione che Mussolini ha fatto anche cose buone. Ciò può essere vero, per le ragioni sopra menzionate. Anzi, è “ovviamente” vero. Ma non deve essere motivo di assolvimento di colpe e riabilitazione morale. Il rischio è quello di far rientrare subdolamente dalla finestra norme, valori, tentazioni e suggestioni già condannati e allontanati a pedate dalla porta della storia.

Riferimenti

Cialdini, R. B., 1995, Le armi della persuasione, Giunti, Firenze.

Del Boca, A., 2005, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza.

Filippi, F., 2019, Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri, Torino

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