Monologo di una zingara sulla chiromanzia rivolto a un gagè (non zingaro)

un viaggio durato una vita 

Tra i pregiudizi più ostinati sugli “zingari” (uso di proposito il termine usato dalla maggior parte degli occidentali per metterne in risalto la problematicità), quello della “zingara divinatrice” è uno dei più radicati. Non è difficile, ancora oggi, incontrare una “zingararella” che si ferma a leggere la mano di un passante in cambio di pochi spiccioli. La lettura, di solito, viene eseguita con convinzione e con modi ammaliatori che riescono talvolta a persuadere il passante della bontà delle doti soprannaturali vantate dalla “chiromante”. Contrariamente a quello che molti pensano, gli “zingari” non sono un popolo superstizioso (o almeno non più superstizioso della media) e praticano le loro arti divinatorie solo con i gagè, cioè con coloro che non sono zingari. I praticanti, inoltre, sono solo donne. Un formidabile sguardo “dall’interno” del significato della divinazione per gli “zingari” è fornito dallo splendido libro di Jan Yoors Zingari, storia di un bambino di dodici anni che decide volontariamente di lasciare la famiglia per seguire i rom lovara nelle loro peregrinazioni per l’Europa. La frequentazione assidua dei lovara rende Yoors uno straordinario osservatore partecipante, per dirla con gli antropologi, un testimone eccezionale delle vicende e dei costumi dei rom, che demistifica molti luoghi comuni sugli “zingari”. Uno di questi riguarda le loro presunte doti divinatorie ed è un discorso che una donna rom, Keja, fa al piccolo Yoors all’improvviso. È utilissimo riprodurre il “monologo” di Keja che illumina uno degli aspetti più controversi del comportamento dei rom e ci permette di guardarlo dal loro stesso punto di vista.

In sostanza, [Keja] disse che il desiderio incontenibile di farsi predire l’avvenire derivava dall’incapacità di controllare le proprie ansie. In questi casi, il bisogno di rivolgersi a una chiromante diventava sempre più forte, dando luogo a un processo di assuefazione simile a quello del gioco d’azzardo, ma ancora più pericoloso, perché metteva a repentaglio non solo il patrimonio, ma anche la lucidità dell’interessato, impedendogli di scorgere le vere cause dei suoi problemi. Era una forma di «pazzia», una ricerca vana e controproducente di sotterfugi per compensare la mancanza di integrità morale, che aveva alla base il rifiuto di affrontare la realtà della vita. La maggior parte delle persone si rivolgeva agli indovini per ricevere una conferma dei propri timori, più che delle proprie speranze. A volte la paura si trasforma in desiderio, dato che inconsciamente molti vorrebbero che accadesse proprio quello di cui hanno più timore. La paura ci impoverisce, aggiunse Keja, mentre l’accettazione del dolore può arricchirci. Ma come dicono i lovara, senza alcun senso di vergogna, «Senza legna il fuoco si spegne» (Bi kashtesko merel i yag). Da un punto di vista pratico, l’arte di predire il futuro consiste essenzialmente nella capacità di ascoltare con infinita pazienza le chiacchiere insensate dei clienti, limitandosi a formulare qualche osservazione di carattere generale in cui le singole persone possano veder riflessa la propria situazione personale. Keja continuò a parlare a lungo, con grande franchezza.

Mi raccontò la storia di un gentiluomo di campagna serbo che, molti anni prima, si era convinto di avere una malattia incurabile. Si era rivolto a un medico di Sarajevo che lo aveva rassicurato, negando decisamente che i suoi timori avessero un fondamento. Allora il gentiluomo era corso a consultare altri medici, che gli avevano confermato la diagnosi del primo. Si era recato a Nish, a Belgrado e a Sofia, in Bulgaria. Alla fine, disperato, si era rivolto a un indovino, che aveva immediatamente confermato i suoi timori, insieme ai suoi sospetti sull’attendibilità della diagnosi dei medici. Dopo un lungo e costoso trattamento, l’indovino era riuscito a guarirlo – da una malattia immaginaria!

Ci sono momenti nella vita delle persone, ammise Keja, in cui farsi leggere la mano può servire ad alleviare la solitudine, a confidarsi con qualcuno o a sfogare le proprie ansie e i propri rancori. Può servire anche a combattere la noia, aggiungendo un po’ di pepe e di esotismo alla vita. Consente di fare un tuffo nel mistero, condito da un pizzico di satanismo. La promessa di un avvenire migliore ci aiuta a vincere la rassegnazione all’infelicità o alla povertà materiale, a condizione però di non prenderla troppo sul serio: altrimenti, può diventare controproducente.

Le zingare dallo sguardo misterioso praticavano quest’arte in cambio di una modesta ricompensa. Era raro che si spingessero oltre e che cercassero di ottenere un potere più duraturo sulle loro vittime volontarie. Come tutte le leggende, anche quella delle capacità divinatorie delle zingare era un’esagerazione, diffusa e ingigantita soprattutto dai clienti più superficiali, quelli che volevano avere qualcosa di sensazionale da raccontare, ma senza crederci fino in fondo. Spesso una coincidenza veniva a confermare l’esattezza di quelle che in effetti erano semplici congetture. La gente tendeva a ricordare le previsioni che si erano avverate e a dimenticare le altre. I rom mi raccontarono la storia di un indovino moldavo, che affermava di essere capace di predire il sesso di un nascituro con molti mesi di anticipo, senza sbagliare mai. Il suo metodo si basava su un trucco molto semplice. Quando annunciava la nascita di un maschio, annotava sul registro la nascita di una femmina. Se nasceva un maschio, non c’erano problemi. Se invece nasceva una femmina e i genitori gli chiedevano conto del suo errore, dichiarava semplicemente di non ricordarsene e fingeva di controllare sul registro, che gli dava ragione.

I rom sfruttavano la paura suscitata nei gagé dalle maledizioni e dagli incantesimi degli zingari per difendersi dalle loro prepotenze. Questo timore irrazionale serviva da deterrente contro la brutalità delle persecuzioni inflitte a una minoranza che non aveva la possibilità di difendersi adeguatamente. Lo status giuridico degli zingari oscillava da quello di minoranza tollerata, nel migliore dei casi, a quello di persone indesiderabili da espellere o eliminare, e in quanto tali esposte alla violenza collettiva. La chiromanzia incuteva un po’ di paura e di rispetto ai più creduli: come strumento di difesa non era forse un granché, ma era meglio di niente (Yoors, J., 2008, Zingari. Sulla strada con i rom lovara, Editrice Irradiazioni, Roma, pp. 73-75).

Dalla testimonianza di Keja, fuoriesce un quadro ben diverso dei rapporti tra rom e divinazione. La chiromanzia è qualcosa in cui gli “zingari” non credono, ma essa è lo specchio delle nostre ansie, dei nostri timori, dei nostri desideri che gli “zingari” sono chiamati ad assecondare, alleviare, esaltare. I rom utilizzano la chiromanzia per guadagnare qualche soldo e per gettare fumo negli occhi dei gagè, alimentando il loro timore irrazionale nei confronti degli “zingari”, timore che gli “zingari” stessi usano per difendersi dalle intrusioni dei “non zingari”. Per i gagè, invece, la chiromanzia e le altre tecniche divinatorie costituiscono, ancora oggi, un modo per far fronte alle avversità della vita e ai timori innescati dalla complessità della società contemporanea, come del resto ci ricordano costantemente le inchieste condotte periodicamente sulla credulità degli occidentali e sul giro d’affari mosso dal mondo di maghi e indovini. Paradossalmente, le parole di Keja sono le parole che psicologi, sociologi e antropologi sono spesso chiamati a dire sulla moda sempre imperante della divinazione: essa riflette paure e bisogni umani. A volte anche noia, bassa autostima, desideri di altro. E tutto questo gli “zingari” lo sanno. Noi invece che viviamo in una società che si vuole ultra-razionale e tecnologica continuiamo ad avvalerci dei servizi, spesso salati, di maghi e indovini. E accusiamo gli “zingari” di essere superstiziosi e ignoranti. Ma se rivolgersi a una chiromante è una forma di pazzia, come dice Keja, è perché ci impedisce di analizzare con lucidità i nostri problemi e la complessità della società in cui viviamo. Una formidabile trappola in cui non riusciamo a fare a meno di cadere. Nonostante la nostra “cultura”, la nostra “civiltà” e il nostro “denaro”.

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