Le disavventure di Greg Patton, professore di comunicazione

La vicenda capitata a Greg Patton, professore di comunicazione in ambito professionale clinico (clinical business comunication) presso la University of Southern California (USC), potrebbe essere addebitata agli estremismi del politically correct o a una forma parossistica di sensibilità ai temi del razzismo nella società americana. Indipendentemente dall’imputazione, è inevitabile ascoltarla con una impressione tra lo sbigottito e l’incredulo perché sembra scaturire più da un brutto incubo che da qualcosa che è accaduto nella realtà. 

I fatti. Il 20 agosto scorso, durante una lezione virtuale, il professore illustra alcuni degli elementi più caratteristici della comunicazione, i cosiddetti riempitivi, ossia quei suoni, parole, frasi che i parlanti utilizzano pleonasticamente per “riempire” il proprio discorso e che, pur risultando spesso inutili a fini comunicativi, sono estremamente comuni nelle conversazioni. Esempi di riempitivi in italiano sono parole come “cioè”, “insomma” e “tipo”, frasi quali “come dire” e “tutto sommato” o suoni come “ehm” e “beh”. Nel corso della lezione, Patton spiega che i riempitivi differiscono da cultura a cultura e cita la parola cinese nai-ge, un intercalare molto diffuso in Cina, utilizzato soprattutto quando le persone hanno una esitazione o non riescono a continuare il discorso. Sfortunatamente per Patton, la pronuncia di nai-ge è molto simile alla pronuncia della parola nigger che, come è noto, in inglese è un termine estremamente offensivo per le persone di pelle nera ed è attentamente evitata nei discorsi pubblici, tanto che vi si fa riferimento talvolta con l’eufemistico N—word.

Il video di Patton suscita la reazione di alcuni studenti che ritengono inappropriata, offensiva e umiliante la lezione del professore per la comunità afroamericana. Risultato: Patton viene sospeso temporaneamente dal suo incarico e l’Università decide di offrire “servizi di sostegno a ciascuno studente o membro della facoltà che ne abbia bisogno”, quasi che, dalla vicenda, possa essere derivato un trauma di qualche tipo ai malcapitati destinatari del video maldestro.

La decisione della USC ha provocato reazioni tra il ridicolo e il risentimento sia negli Stati Uniti sia nella stessa Cina, dove la vicenda è stata vissuta come una forma di discriminazione anticinese. Peraltro, sembra che equivoci culturali del genere siano già accaduti in passato sia in Cina sia altrove.

Ciò che lascia sconcertati è la totale ignoranza dei dirigenti dell’università americana nei confronti di uno dei principi fondamentali della comunicazione, vale a dire la contestualità del discorso umano e la rilevanza dell’elemento interculturale. Le persone differiscono in quanto a credenze, culture, modalità di comunicare verbalmente e non verbalmente e attribuiscono significati diversi a significanti simili o identici. È noto, ad esempio, che lo spagnolo burro significa in italiano “asino”: suono uguale, significati diversi. La cultura può incidere ancora più profondamente sulla comunicazione. Ad esempio, in risposta a una domanda da parte di un occidentale del tipo: «Hai capito?» una persona di un altro paese può muovere la testa dall’alto in basso, ma non per rispondere affermativamente, quanto per segnalare che sta seguendo quello che dice l’altro. Se l’occidentale si rende conto che l’altro non ha capito ciò che sta dicendo può reagire con sorpresa o irritazione, e questo può confermare nell’altro l’idea che gli occidentali siano tutti arroganti e insensibili.  

L’equivoco culturale, in un certo senso, è una costante della comunicazione tra umani. Ciò nonostante, chi si occupa professionalmente di impartire sapere e conoscenza dovrebbe essere consapevole di tale rischio e attribuirlo correttamente alla complessità dell’atto comunicativo, senza cedere in maniera irriflessa a presunte intenzioni razziste. Evidentemente, negli Stati Uniti, le astruserie del politically correct riescono ad avere la meglio perfino sul sapere.

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