La irritante questione delle mezze stagioni

Francamente, è uno dei luoghi comuni più irritanti che si possa sentire in giro. Forse per la frequenza d’uso: decisamente imbarazzante. Forse, perché chi lo pronuncia ne riferisce come di una verità lapalissiana, indubitabile, certa. Come il fatto che esistono uomini e donne, il giorno e la notte, Fedez e Rovazzi. Per chi si fosse perso, parlo del tormentone “Non ci sono più le mezze stagioni”, che ho appena finito di sentire per l’ennesima volta dalla mia vicina di casa perché questo inverno, almeno da noi al Sud, non è ancora freddo abbastanza per lei (ma l’inverno non è una “mezza stagione”). Ora, intendiamoci. Il clima cambia come cambia la Terra e tutti i fenomeni che la riguardano, come cambiamo noi e la società. Su questo non ci piove (per usare un altro modo di dire climatologico). La verità, però, è che, da un punto di vista strettamente climatologico, le mezze stagioni non esistono, nel senso che primavera e autunno sono, con inverno ed estate, un modo convenzionale, seppure in uso da secoli, per dare un senso al tempo: non sono ontologicamente reali. Allora, a che cosa si fa riferimento quando si dice che “Non ci sono più le mezze stagioni”? Ad un fenomeno psicologico, ben noto alla psicologia delle età, di cui già parlava Giacomo Leopardi in uno dei suoi Pensieri (poi ripreso anche nello Zibaldone). Cediamogli la parola per poi commentarla, seppure brevemente.

Baldassar Castiglione nel Cortegiano assegna molto convenientemente la cagione perché sogliano i vecchi lodare il tempo in cui furono giovani, e biasimare il presente. “La causa adunque, dice, di questa falsa opinione nei vecchi, estimo io per me ch’ella sia perché gli anni, fuggendo, se ne portan seco molte comodità, e tra l’altre levano dal sangue gran parte degli spiriti vitali, onde la complession si muta, e divengon debili gli organi per i quali l’anima opera le sue virtù. Però dei cuori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi, caggiono i soavi fiori di contento, e nel luogo dei sereni e chiari pensieri entra la nubilosa e torbida tristizia, di mille calamità compagnata: di modo che non solamente il corpo, ma l’animo ancora è infermo, né dei passati piaceri riserva altro che una tenace memoria, e la immagine di quel caro tempo della tenera età, nella quale quando ci ritroviamo, ci pare che sempre il cielo e la terra ed ogni cosa faccia festa e rida intorno agli occhi nostri e nel pensiero, come in un delizioso e vago giardino, fiorisca la dolce primavera d’allegrezza. Onde forse saria utile, quando già nella fredda stagione comincia il sole della nostra vita, spogliandoci di quei piaceri, andarsene verso l’occaso, perdere insieme con essi ancor la loro memoria, e trovar, come disse Temistocle, un’arte che a scordar insegnasse; perché tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingannano ancora il giudicio della mente. Però parmi che i vecchi siano alla condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta; e pur è il contrario, che il porto, e medesimamente il tempo e i piaceri, restano nel suo stato, e noi con la nave della mortalità fuggendo, n’andiamo l’un dopo l’altro per quel procelloso mare che ogni cosa assorbe e divora; né mai più ripigliar terra ci è concesso, anzi, sempre da contrari venti combattuti, al fine in qualche scoglio la nave rompemo. Per esser adunque l’animo senile subietto disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli può; e come ai febbricitanti, quando dai vapori corrotti hanno il palato guasto, paiono tutti i vini amarissimi, benché preziosi e delicati siano, così ai vecchi per la loro indisposizione, alla qual però non manca il desiderio, paion i piaceri insipidi e freddi e molto differenti da quelli che già provati aver si ricordano, benché i piaceri in se siano i medesimi. Però, sentendosene privi, si dolgono, e biasimano il tempo presente come malo; non discernendo che quella mutazione da se e non dal tempo procede. E, per contrario, recandosi a memoria i passati piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e però lo laudano come buono; perché pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiano quando era presente. Perché in effetto gli animi nostri hanno in odio tutte le cose che state sono compagne de’ nostri dispiaceri, ed amano quelle che state sono compagne dei piaceri”.

Così il Castiglione, esponendo con parole non meno belle che ridondanti, come sogliono i prosatori italiani, un pensiero verissimo. A confermazione del quale si può considerare che i vecchi pospongono il presente al passato, non solo nelle cose che dipendono dall’uomo, ma ancora in quelle che non dipendono, accusandole similmente di essere peggiorate, non tanto, com’è il vero, in essi e verso di essi, ma generalmente e in se medesime. Io credo che ognuno si ricordi avere udito da’ suoi vecchi più volte, come mi ricordo io da’ miei, che le annate sono divenute più fredde che non erano, e gl’inverni più lunghi; e che, al tempo loro, già verso il dì di pasqua si solevano lasciare i panni dell’inverno, e pigliare quelli della state; la qual mutazione oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e talvolta di giugno, si può patire. E non ha molti anni, che fu cercata seriamente da alcuni fisici la causa di tale supposto raffreddamento delle stagioni, ed allegato da chi il diboscamento delle montagne, e da chi non so che altre cose, per ispiegare un fatto che non ha luogo: poiché anzi al contrario è cosa, a cagione d’esempio, notata da qualcuno per diversi passi d’autori antichi, che l’Italia ai tempi romani dovette essere più fredda che non è ora. Cosa credibilissima anche perché da altra parte è manifesto per isperienza, e per ragioni naturali, che la civiltà degli uomini venendo innanzi, rende l’aria, ne’ paesi abitati da essi, di giorno in giorno più mite: il quale effetto è stato ed è palese singolarmente in America, dove, per così dire, a memoria nostra, una civiltà matura è succeduta parte a uno stato barbaro, e parte a mera solitudine. Ma i vecchi, riuscendo il freddo all’età loro assai più molesto che in gioventù, credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell’aria o nella terra. La quale immaginazione è così fondata, che quel medesimo appunto che affermano i nostri vecchi a noi, affermavano i vecchi, per non dir più, già un secolo e mezzo addietro, ai contemporanei del Magalotti, il quale nelle Lettere familiari scriveva: “egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d’impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno”. Questo scriveva il Magalotti in data del 1683. L’Italia sarebbe più fredda oramai che la Groenlandia, se da quell’anno a questo, fosse venuta continuamente raffreddandosi a quella proporzione che si raccontava allora.

È quasi soverchio l’aggiungere che il raffreddamento continuo che si dice aver luogo per cagioni intrinseche nella massa terrestre, non ha interesse alcuno col presente proposito, essendo cosa, per la sua lentezza, non sensibile in decine di secoli, non che in pochi anni.

Leopardi ci dice, in sostanza, che le persone, soprattutto se di età avanzata, compiono un duplice errore di attribuzione: da un lato confondono il benessere della gioventù con il benessere del pianeta, vaticinando, dunque, che il pianeta è avviato alla perdizione solo perché il loro fisico è in fase di decadimento; dall’altro, interpretano la maggiore sensibilità al freddo o al caldo, tipica della terza età, nel senso di una presunta, recente polarizzazione del clima. In realtà, non c’è bisogno di essere vecchi per cadere in questi tranelli psicologici. Mi capita, in inverno, di sentire dire da persone, anche giovani, che, intabarrate all’inverosimile, entrano in una carrozza ferroviaria riscaldata, frasi come: “Fa troppo caldo!” o “Perché non riducono il riscaldamento?”, quando basterebbe semplicemente levarsi il cappotto, la sciarpa e i guanti per stare bene. Oppure, non è raro sentire commentare da persone che hanno appena corso o donne in menopausa che hanno appena avuto una vampata: “Fa troppo caldo!”. In entrambi i casi, una condizione interna viene attribuita a un fattore esterno. È più forte di noi. Se qualcosa non va, la colpa è sempre di qualcuno o qualcosa che è fuori di noi. Se riceviamo un brutto voto è per colpa della severità del professore, non della nostra impreparazione; se non vinciamo un concorso pubblico è perché “ci sono troppi raccomandati”  e così via attribuendo.

Del resto, ritornando al nostro luogo comune di partenza, è da tempo che diciamo che “Non ci sono più le mezze stagioni”. Ad esempio, Edmondo De Amicis nel 1899 – dopo Leopardi – diceva in La carrozza di tutti: “Non c’è più stagioni! Chi ne capisce qualche cosa? È il mondo che va a soqquadro”. E forse, risalendo nel tempo, si potrebbero citare anche Platone e Aristotele. Perché l’uomo non ha mai smesso di prendersela con il tempo per le cose che non vanno nella società.

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