La distanza sociale in sociologia

Robert E. Park

Il termine “distanza sociale” sembra oggi aver assunto un’accezione monosemica, identificata nel significato di distanza di sicurezza minima da tenere tra le persone per evitare il contagio. Eppure, il concetto ha una lunga tradizione nelle scienze sociali, che risale addirittura all’inizio del Novecento.

Sono stati autori come Robert E. Park (1864-1944), Emory S. Bogardus (1882-1973) e, sul versante antropologico, Edward T. Hall (1914-2009) a introdurlo, seppure definendolo con qualche differenza, nel novero dei termini della sociologia e dell’antropologia.

Tradizionalmente, esso designa “il livello di intimità che caratterizza in genere le relazioni personali e sociali” (Park) oppure una “funzione della distanza affettiva tra i membri di due gruppi” (Bogardus). In sostanza, il concetto di “distanza sociale” indica le differenze e gerarchie sociali che si instaurano tra membri di classi o gruppi sociali diversi e tra membri di “razze”, etnie, religioni, ecc. diversi. Come ci rapportiamo con chi è diverso da noi per una o più caratteristiche? Ci piace vivere nello stesso quartiere in cui vivono persone provenienti da ambienti sociali e culturali diversi dal nostro? Come condiziona la cultura gli spazi che viviamo e che condividiamo con gli altri?

Come è evidente, il tema della distanza sociale è particolarmente rilevante da un punto di vista sociale. Secondo Bogardus sono le variabili etniche, in misura prevalente se non esclusiva, a fungere da fattori esplicativi della distanza sociale. Più tardi, altri autori prenderanno in considerazione anche altre variabili, come stratificazione sociale e cultura.

La distanza sociale, inoltre, riverbera sulla psicologia e la condotta degli individui in maniera talora insospettabile. Ad esempio, connota situazioni valutative che danno luogo ad atteggiamenti come  deferenza, emulazione o rispetto, o negativi, come disprezzo, invidia, risentimento. La distanza sociale è contrassegnata da segni geografici (occupare spazi fisici diversi o vivere in quartieri, abitazioni diverse), sociali (stili di vita, gusti, modo di vestire, lavoro ecc.), linguistici (il “lei” e il”voi” vs. il “tu”), estetici e così via.

Secondo quanto scrivono Gurnee e Baker nell’articolo “The social distances of some common social relationship” (1938), sono undici i fattori più rilevanti per lo studio della distanza sociale. Essi sono: il matrimonio, le amicizie, gli hobby, la professione, la religione, il quartiere, il reddito, la politica, la nazionalità, l’etnia e la cittadinanza; tutti fattori ancora oggi essenzialmente significativi.

In sostanza, secondo la sociologia, il modo in cui gli individui si rapportano ai loro simili non è mai casuale, ma è funzione di molteplici fattori che spesso agiscono su di noi senza che ce ne rendiamo conto. Si pensi alla distanza che molti bianchi tengono nei confronti dei neri e che si esprime in uno spazio fisico maggiore rispetto a quando gli interlocutori sono altri bianchi. Si pensi, ancora, al fatto che interi quartieri tendono a riprodurre la composizione etnica dei propri abitanti o che, nel medesimo luogo di lavoro, bianchi e neri hanno vissuto per anni in spazi segregati.

Per recuperare questa ricca, ma un po’ dimenticata, tradizione della sociologia, traduco di seguito l’articolo “The Concept of Social Distance As Applied to the Study of Racial Attitudes and Racial Relations” di Robert E. Park (1924), probabilmente il testo fondatore del concetto nella disciplina.

Robert E. Park sottolinea la produttività del concetto soprattutto in riferimento alle distanze tra classi e razze. Dopo le ultime vicende di questo ventennio del XXI secolo possiamo aggiungere che il virus o, comunque, situazioni di rischio per la salute, possono contribuire ad aumentare o ridurre la distanza sociale tra gli individui con conseguenze non previste dai fondatori della sociologia.

L’applicazione del concetto di distanza sociale allo studio

degli atteggiamenti e delle relazioni razziali

Robert E. Park

I

Definizione di distanza sociale

Il concetto di “distanza”, così come invalso nell’ambito delle relazioni tra esseri umani piuttosto che tra spazi, è stato adoperato dai sociologi nel tentativo di ricondurre a termini misurabili i gradi e i livelli di comprensione e intimità che caratterizzano in genere le relazioni personali e sociali.

Ci capita spesso di dire che A è molto “vicino” a B, che C è distante e riservato e che D, d’altro lato, è di larghe vedute, sensibile, comprensivo e affabile. Tutte queste espressioni descrivono e, in una certa misura, misurano la “distanza sociale”.

Dobbiamo ammettere che non conosciamo tutti i fattori che compongono e determinano ciò che chiamiamo distanza sociale. Sappiamo ovviamente che, in molti casi, il riserbo è una conseguenza della timidezza e dell’imbarazzo. Sappiamo anche che, in determinate circostanze, il riserbo può essere annullato, favorendo in questo modo la dissoluzione delle distanze sociali e l’instaurazione di rapporti più intimi.

Il fatto è che siamo chiaramente consapevoli, in tutti i nostri rapporti personali, dell’esistenza di gradi di intimità. A è più vicino a B di C e il grado di questa intimità misura l’influenza che ognuno esercita sull’altro.

Essendo in grado di distinguere con facilità i vari gradi di intimità, potremmo riuscire a misurare la “distanza”, nel senso in cui il termine è qui adoperato, con la stessa precisione con cui oggi misuriamo l’intelligenza, poiché non conosciamo tutti i fattori che determinano l’intelligenza più di quanto conosciamo tutti i fattori che determinano l’intimità.

L’impulso umano originario che ci porta ad accedere con l’immaginazione alla mente degli altri, a condividere le loro esperienze e a provare con loro dolori e piaceri, gioie e dispiaceri, speranze e timori può essere inibito dalla timidezza, da vaghe paure, da tornaconti personali ecc. e tutti questi fattori devono essere presi in considerazione quando tentiamo di misurare le “distanze”.

Ora, se è vero che percepiamo un senso di distanza nei confronti degli individui con cui entriamo in contatto, avvertiamo la medesima sensazione anche nei confronti di classi e razze. I termini “coscienza di razza” e “coscienza di classe”, con cui la maggioranza di noi ha familiarità, descrivono uno stato d’animo in cui acquisiamo, spesso in maniera improvvisa e inattesa, consapevolezza delle distanze che ci separano, o sembrano separarci, dalle classi e dalle razze che non comprendiamo pienamente.

Non solo è vero che avvertiamo questo senso di distanza in riferimento a interi gruppi di persone, ma è anche vero che “coscienza di razza” e “coscienza di classe” spesso interferiscono con, modificano e condizionano le relazioni personali; relazioni che, in circostanze diverse, pare, potrebbero divenire estremamente intime e accoglienti.

Ad esempio, la padrona di casa può avere un rapporto personale molto intimo con la cuoca, ma questo rapporto persisterà solo se la cuoca saprà mantenersi a “debita distanza”. Vi è sempre una sorta di rituale sociale attraverso cui la cuoca è tenuta al suo posto, soprattutto quando ci sono ospiti. Questo è qualcosa che ogni donna sa.

Lo stesso accade nelle relazioni tra razze. Il negro sta “bene al suo posto” e la stessa cosa si può dire probabilmente di ogni altra razza, classe o categoria di persone verso cui abbiamo acquisito atteggiamenti stabili, abituali e convenzionali. Tutti, a quanto pare, vanno d’accordo con tutti, purché ognuno si tenga a debita distanza.

L’importanza di queste forme di riserbo personale e razziale, che invariabilmente e inevitabilmente vengono fuori a complicare e, in una certa misura, a fissare e rendere convenzionali le nostre relazioni umane spontanee, è che trovano espressione in tutti i nostri rapporti formali sociali e perfino politici.

È tipico della democrazia che, relativamente parlando e in teoria, non vi siano “distanze sociali”. Walt Whitman, che aveva una concezione mistica e poetica della democrazia, non escludeva nessuna creatura umana dalla sua cerchia di cordiale unione e comprensione. Nei suoi famosi versi rivolti a una prostituta comune, affermava: “Finché il sole non ti escluderà, io non ti escluderò”. E in questa frase comprensiva egli sembrava unire in un ampio abbraccio fraterno ogni essere umano e vivente che la pioggia bagna e il sole riscalda. Ma non disse di non voler riconoscere alcuna distinzione tra esseri umani.

La democrazia aborre le distinzioni sociali, ma le conserva. La differenza tra la democrazia e altre forme di società è che essa rifiuta di fare della razza una classe, ossia di operare distinzioni tra gruppi sociali. Distinzioni e distanze sono di tipo meramente individuale e personale. In una società individualistica come la nostra, ognuno è, in teoria, considerato in base ai propri meriti individuali.

La società aristocratica, d’altronde, si regge su distinzioni e differenze sociali. Le riverenze, gli ossequi e i tabù cerimoniali che caratterizzano le società fortemente stratificate esistono allo scopo preciso di far valere il riserbo e le distanze sociali su cui poggiano le gerarchie sociali e politiche.

Gli ideali della società democratica, per come li conosciamo, sono una eredità della frontiera. Sulla frontiera, dove, in genere, non vi sono tradizioni, riverenze e ossequi, ognuno è padrone della propria anima immortale. Date queste circostanze, le distanze sociali vengono meno e le relazioni sociali sono più dirette, schiette e informali di quanto esse siano, probabilmente, in ogni altra circostanza.

Ma la frontiera è scomparsa o sta scomparendo. Inoltre, la stessa esistenza della vita di frontiera presupponeva condizioni che non esistono più. In ogni caso, essa aveva i suoi pregiudizi. Il pregiudizio tipico era rivolto non contro lo straniero, ma contro chi si comportava in modo strano, chi se ne stava in disparte o assumeva atteggiamenti di superiorità, chi non fraternizzava né socializzava. Ogni forma di riserbo tendeva a essere considerata con sospetto. Date queste condizioni, il crogiolo era reale e la democrazia prosperava.

Con l’arrivo dell’orientale, però, le cose cambiarono. Egli aveva un aspetto strano, parlava una lingua bizzarra e aveva sviluppato consuetudini di operosità e parsimonia che risultavano intollerabili a coloro che dovevano competere con lui. Di conseguenza, la società democratica subì un tracollo. Non era più possibile considerare gli orientali come individui. Essi non si assimilavano. Li si guardava e non si capiva che passasse per la loro testa. Erano “diavoli stranieri”. Come disse Bret Harte: “Per i suoi modi oscuri e il suo contegno falso, il cinese pagano è singolare”. La competizione, che prima era personale, divenne razziale, e la competizione razziale divenne conflitto razziale.

In seguito a questo conflitto, è sorta una nuova “coscienza di razza,” per così dire, una coscienza basata sul “colore”. La marea montante del colore, come recita il titolo del libro di Lothrop Stoddard, descrive le circostanze e le condizioni in cui è sorta questa nuova coscienza. Poiché la coscienza di gruppo nasce di solito dal conflitto di gruppo, essa genera invariabilmente un pregiudizio di gruppo.

Ciò che noi, di solito, definiamo “pregiudizio” sembra, dunque, essere una disposizione spontanea, più o meno istintiva, finalizzata a mantenere le distanze sociali. Queste distanze, nella nostra società democratica, tendono ad assumere un carattere meramente individuale. Diciamo di non avere pregiudizi, ma scegliamo chi frequentare. Sulla frontiera, prima dell’arrivo del cinese, e nelle nostre comunità di villaggio dove tutti si chiamavano per nome, siamo riusciti con un certo successo a preservare una società priva di distinzioni razziali o di classe. Ma in città, abbiamo acquisito una “coscienza di classe”, proprio come, con l’emancipazione dei negri e l’invasione degli immigranti europei e asiatici, abbiamo acquisito una “coscienza di razza”.

Il pregiudizio, nell’accezione lata del termine, sembra rientrare nella coscienza di gruppo (group consciousness) come il riserbo sembra rientrare nella timidezza (self-consciousness). All’inizio, il bambino non sa cosa sia il riserbo, né sa cosa siano l’orgoglio, l’umiltà, la gratitudine e tutte le altre forme di emozione e sofferenza che derivano dalla timidezza.

Il bambino non sa neppure che cosa siano il pregiudizio di classe e quello di razza. Tranne che nei bambini precoci, queste manifestazioni di coscienza di gruppo che chiamiamo “coscienza di razza” e “coscienza di classe” non si palesano ordinariamente se non poco prima della pubertà. Quando ciò accade, però, esse sono accompagnate da tutti i pregiudizi tradizionali su cui si reggono le tradizionali distinzioni di classe e di razza e le tradizionali distanze sociali.

Con ciò non intendiamo sostenere che la coscienza di razza, il pregiudizio e tutte le distinzioni personali e sociali relative alla distanza sociale si identifichino, in qualsiasi modo, con questa.

La timidezza, in realtà, scaturisce, di solito, da qualche tipo di conflitto personale e il riserbo che si manifesta in conseguenza di conflitti precedenti e della previsione di altri serve allo scopo di proteggere la vita personale, privata dell’individuo da intromissioni, travisamenti e censure.

Il pregiudizio, al contrario, sorge quando a essere minacciati non sono i nostri interessi economici, ma il nostro status sociale. Il pregiudizio e il pregiudizio razziale non si identificano affatto con la distanza sociale, ma sorgono quando il nostro riserbo personale e razziale è, o sembra essere, intaccato. Nel complesso, il pregiudizio non è una forza aggressiva, ma una forza di conservazione; una sorta di conservazione spontanea che tende a preservare l’ordine sociale e le distanze sociali su cui si regge quell’ordine.

Lo scopo del nostro studio sulle razze è di misurare non i nostri pregiudizi, ma quei tabù e quelle inibizioni più vaghe e sottili che persistono perfino in un ordine mobile e mutevole come il nostro e che rappresentano le forze stabilizzanti, spontanee, istintive e conservative su cui si regge l’organizzazione sociale.

Robert Ezra Park, 1924, “The Concept of Social Distance As Applied to the Study of Racial Attitudes and Racial Relations”, Journal of Applied Sociology, vol. 8, pp. 339-344.

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