Il nazionalismo banale delle Olimpiadi

Non c’è forse atteggiamento più banalmente nazionalista di quello che, da qualche giorno, serpeggia nei commenti sui Giochi olimpici di questi giorni.

La manifestazione che dovrebbe celebrare il trionfo dello sport in quanto sport, il record in quanto record, la grandeur di uomini e donne che si spingono oltre i loro limiti diventa, nelle parole di giornalisti, commentatori, opinionisti, l’ennesimo fatto sportivo incorniciato in un’ottica tacitamente nazionalista in cui non importa tanto l’impresa del corridore o il primato del judoka, ma il numero di medaglie “portate a casa” dal “nostro” paese nonché la loro sostanza (oro, argento o bronzo).

Così, il valore delle competizioni viene ridotto a uno sterile esercizio contabile in cui conta chi ha conseguito più ori, più argenti e più bronzi con la conseguenza paradossale che un bronzo senza infamia e senza lode ottenuto da un “nostro” atleta “varrà” più, nel nostro immaginario nazionalista, del record mondiale stabilito dal velocista di un paese “straniero”, il quale verrà certamente menzionato, ma a cui non sarà concesso lo stesso spazio e le stesse acclamazioni che strariperanno per il “bronzista” italico.

Un’altra conseguenza paradossale è che sport sconosciuti o quasi acquistano valore solo perché a trionfare è uno sportivo nostrano, come dimostra la vicenda di Vito Dell’Aquila, vincitore della medaglia d’oro nella disciplina del taekwondo, ancora oggi sport alquanto “esotico” per molti italiani.

Questo “nazionalismo banale” – espressione coniata dallo psicologo Michael Billig – è tanto silenzioso e strisciante, quanto imponente perché dato per scontato, mai messo in discussione, parte del sottofondo cognitivo che anima le nostre esistenze.

In quanto atteggiamento scontato, ogni giornalista sportivo si sente in dovere di proiettarne la cornice sui giochi olimpici, fornendo una interpretazione a senso unico che viene condivisa da spettatori e semplici cittadini.

Come dimostrano le Olimpiadi, e lo sport in generale, il nazionalismo è, dunque, lungi dall’essere morto, anzi è vivo e vegeto proprio perché tacito e ovvio. Anzi, finisce con il dare valore a eventi di per sé minori nel nome del sangue e della stirpe italica, termini senz’altro in disuso, ma che rendono bene la retorica diffusa intorno a questi eventi.

Alla fine, conterà solo il medagliere e l’esito delle Olimpiadi sarà assimilabile all’impresa di un ragioniere. Solo che non ce ne rendiamo conto perché tutto ciò che conta è che vinca l’Italia.

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