Un tempo la nozione di “gruppo di riferimento” in sociologia era talmente popolare che divenne quasi una “parola magica” tramite cui spiegare qualsiasi cosa avesse a che fare con i rapporti tra gruppi sociali. Il concetto di “gruppo di riferimento” veniva adoperato per spiegare perché le persone sceglievano determinati stili di vita, aspiravano a particolari status, occupavano alcuni ruoli a scapito di altri, si confrontavano con altri individui per decidere quale automobile acquistare, quali abiti, quali case.
Il gruppo di riferimento spiegava il coinvolgimento in attività delinquenziali, ma anche l’adozione di comportamenti estremamente conformisti; consentiva di comprendere perché determinati individui avvertivano il desiderio di combattere per la propria patria, mentre altri si guardavano bene dal farlo; illuminava i processi apparentemente impenetrabili attraverso cui alcuni adolescenti si ribellavano ai propri genitori e alla società degli adulti in generale, mentre altri aspiravano a ricalcare le orme genitoriali, a divenire professori universitari o venditori di frutta e verdura.
I gruppi di riferimento potevano svolgere un ruolo importante nella decisione di adottare tecnologie agricole innovative o perseguire carriere lavorative prestigiose. Ma anche nella decisione di votare per un candidato piuttosto che per un altro o di aderire a un gruppo religioso e avversarne un altro.
La nozione di “gruppo di riferimento” veniva adoperata da pubblicitari ed esperti di marketing per promuovere questa o quella merce presso questo o quel segmento di pubblico, da propagandisti senza scrupoli per orientare i cittadini verso questo o quel movimento politico.
Insomma, il gruppo di riferimento come concetto buono-a-tutto, grimaldello universale per entrare in ogni piega del sociale e svelarne i misteri insoluti, chiave di volta dell’edificio delle scienze sociali, ma anche strumento di marketing e propaganda. Non a caso ad occuparsene sono stati nomi tutelari della psicologia sociale e della sociologia americane, come Herbert H. Hyman, Theodore Newcomb, Muzafer Sherif, Ralph Herbert Turner, Robert K. Merton, Shmuel Noah Eisenstadt, Garry Runciman, per citarne solo alcuni.
Oggi, il concetto rappresenta qualcosa con cui ogni sociologo o aspirante tale non può non fare i conti, anche se, come osserva Robert Merton, esso è nato prima nell’ambito della psicologia sociale per poi essere fatto proprio dalla sociologia, come accade talvolta ai concetti che oscillano tra una disciplina e l’altra. Al riguardo, si può citare la nozione di “profezia che si autoavvera”, che ha seguito un percorso inverso, essendo nata in ambito sociologico per poi essere assorbita, quasi per intero, dalla psicologia.
Tanta frequenza d’uso non poteva non generare un proliferare di significati che, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, hanno vivacemente animato il confronto sul termine, ma anche generato ambiguità e fraintendimenti non sempre ricomposti. Si può affermare, senza timore di esagerare, che il numero delle sue accezioni sia quasi pari al numero di quanti lo hanno utilizzato o ne hanno promosso l’utilizzo nelle proprie ricerche.
In questo articolo (puoi leggerlo anche qui), passo in rassegna alcuni dei molteplici significati attribuiti al termine in sociologia, per poi passare a illustrare la peculiare interpretazione che un altro grande sociologo, Tamotsu Shibutani, ha fornito del concetto, in un articolo seminale, “Reference Groups as Perspectives” (1955), da me tradotto nello stesso articolo.
Buona lettura.