I diari di Lewis Henry Morgan

Nella maggior parte dei casi, i classici dell’antropologia offrono testi che elidono il lavoro di ricerca e propongono come dati gli esiti di un lavoro arduo, irto di difficoltà tecniche e umane. Ma come si muove davvero un antropologo sul campo? Che cosa spera e teme? Quali sono i compromessi a cui deve vincolarsi? E come pianifica la sua ricerca?

L’occasione di vedere un antropologo impegnato nel suo dirty work è sicuramente la pubblicazione, da parte dell’editore romano CISU, dei diari di campo, finora inediti in Italia, di Lewis Henry Morgan (1818-1881), figura pionieristica dell’antropologia americana, noto per capolavori quali La Lega degli Irochesi (1851) e La società antica (1877). Finora l’editoria italiana ci aveva regalato poche testimonianze del genere, prima fra tutte i celeberrimi Diari di Bronislaw Malinowski. Oggi, i diari di Morgan danno al lettore l’opportunità di “vedere” un antropologo al lavoro, con tutte le difficoltà pratiche del caso. Come e quando viaggiare? Come conciliare l’antropologia con il proprio lavoro? Come avvicinarsi ai soggetti della propria ricerca? Come raccogliere informazioni? Come costruire rapporti? Come superare i momenti di difficoltà e di scoraggiamento? Come far fronte alle asperità dell’ambiente e delle comunicazioni? I diari di Morgan costituiscono un’occasione quasi unica per chi è attirato da quella affascinante disciplina che è l’antropologia e vuole saggiarne tutti gli aspetti metodologici. La cura del testo è dell’antropologo lucano Enzo Vinicio Alliegro, la traduzione mia.

L’opera di Morgan offre, però, anche importanti spunti linguistici e traduttivi. Qui di seguito, la mia Nota del traduttore, espunta dal testo per motivi editoriali.

Buona lettura

Nota del traduttore

È opportuno fornire alcune breve osservazioni sulle scelte lessicali e traduttive adottate per il presente testo.

Tradurre un testo che parla di “Indiani d’America” significa confrontarsi con un set di termini ormai stabilizzato e assunto come dato dalla tradizione traduttiva. Si pensi a termini come “uomo di medicina”, “nazione” e “banda”, che riproducono per calco gli inglesi medicine-man, nation e band. Eppure, proprio la forte tendenza al calco che caratterizza i testi antropologici, etnologici e storici che hanno come oggetto di studio gli “Indiani” può sollevare importanti interrogativi sulla bontà delle consuetudini traduttive: ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se un termine come “banda” che, in italiano, ha connotazioni che evocano discipline come la sociologia della devianza o la criminologia, sia una soluzione adeguata. Il problema è che quando un termine si assesta prepotentemente in un lessico specialistico diventa difficile scalzarlo e si corre il rischio di proporre soluzioni stranianti che rendono difficile conciliare il testo “neologizzato” con il corpus testuale, intrinseco alla sua disciplina di riferimento, che è ormai patrimonio corrente di esperti, specialisti e uomini e donne comuni. Si pensi, tanto per fare un esempio letterario, a quanto accaduto con la recente ritraduzione (2010) del capolavoro di Thomas Mann Der Zauberberg, noto da quasi un secolo in italiano con il titolo La montagna incantata, e ora diventato il più fedele La montagna magica. Sebbene quest’ultimo sia un titolo preferibile da un punto di vista squisitamente tecnico, la reazione dei lettori è stata di sconcerto per il prestigio ormai accumulato dal titolo più tradizionale. Per questo motivo, nel contesto della presente traduzione, si è preferito conservare i termini consueti invalsi nella letteratura antropologica ed etnologica in materia, pur avvertendo il lettore, seppure nel breve spazio di questa nota, della necessità di assumere uno sguardo problematico nei confronti degli stessi.

Altra caratteristica di questo testo è naturalmente lo stile dell’autore: trattandosi di journals, Morgan adotta uno stile ovviamente diaristico con tutto ciò che questo comporta da un punto di vista narrativo. In particolare, si segnalano ridondanze, ripetizioni, uso di deittici, scrittura informale e intimistica, spazio concesso a osservazioni personali e certamente “poco scientifiche”, “rivelazioni” che probabilmente non troverebbero spazio in un testo scientifico vero e proprio. Particolarmente a proposito dei deittici, si è tentato di contestualizzare gli stessi quando possibile in modo da rendere più chiaramente al lettore il loro significato. Le “rivelazioni” di Morgan, invece, consentiranno al lettore di conoscere modi di pensare, atteggiamenti e opinioni dell’autore, anche “politicamente scorrette”, non consuete di norma nei testi scientifici.

I diari di Morgan risentono molto dell’intervento del suo curatore, l’antropologo statunitense Leslie Alvin White che ha fornito il testo originale di un robusto apparato paratestuale, qui riprodotto solo in parte. In particolare, si sono conservati, oltre all’introduzione, i titoli dei paragrafi di White, che consentono di suddividere in modo leggibile il materiale di Morgan e di offrire una scansione più comprensibile e contestualizzata delle vicende che videro protagonista l’autore della Lega degli irochesi tra il 1859 e il 1861. Sono state preservate anche alcune note di White, dove necessario, in modo da consentire una più agevole penetrazione del testo. Le note di White sono tra parentesi quadre. Altre osservazioni di White sono state espunte, o perché troppo dettagliate o perché prolisse.

I diari di Morgan presentano occasionalmente qualche spazio vuoto, anche in questo caso solitamente chiarito da White. Comunque, si sono espunte brevissime frasi dal significato ambiguo o indefinibile, non leggibili né comprensibili nel testo originale di Morgan. Tra parentesi quadre si trovano anche alcune interpolazioni del traduttore chiarificatrici di termini o situazioni. Ad esempio, si è lasciato nell’originale inglese i termini niece e nephew (nipoti di zio/zia) e grandson e granddaughter e grandchildren (nipoti di nonno/nonna) che in italiano sono tradotti dagli stessi termini. In alcuni – pochissimi – casi, ho sostituito le dizioni scelte da Morgan con quelle più in uso: ciò è accaduto unicamente con i nomi di alcune tribù (o clan) indiani e solo in presenza di attestazioni certe. Un esempio è costituito da nomi come “Pottawatamie” e “Menominee” la cui grafia è stata resa omogenea e costante.

I nomi degli Indiani sono sempre resi con iniziale maiuscola, tranne quando compaiono come aggettivi. I termini relativi alle unità di misura sono lasciati in originale: piedi, pollici e bushel, dunque, sono adoperati al posto dei più familiari (per il lettore italiano) metri, centimetri e staia. Ciò è stato fatto per restituire la cultura di provenienza dell’autore, al limite dello straniamento, nel presupposto che il lettore debba compiere uno sforzo di avvicinamento al suo contesto, anche linguistico, e, per così dire, mettersi nei panni di chi fa antropologia nel XIX secolo. Si noterà che le descrizioni spaziali di Morgan fanno spesso uso di termini relativi ai quattro punti cardinali (nord, sud, est, ovest), pratica non abituale per il lettore italiano, più abituato a termini che riguardano opposizioni come sinistra-destra, alto-basso.

Un’ultima osservazione: per una migliore comprensione del testo si raccomanda al lettore poco avvezzo alle “faccende” degli Indiani d’America, o socializzato a stereotipi e idee fallaci tratte da film e letteratura popolare, di leggere qualche storia degli Indiani d’America. Un esempio può essere l’agile Jacquin, P., 2016, Storia degli indiani d’America, Mondadori, Milano, ma i testi in argomento sono davvero numerosi e non c’è che l’imbarazzo della scelta. 

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