“I bambini sono la bocca della verità”

Nel film danese Il sospetto (2012) di Thomas Vinterberg, Lucas è un uomo separato con figlio che presta servizio con soddisfazione in un asilo. I bambini gli sono molto affezionati e tutti ammirano il suo lavoro. Una bambina, in particolare, Klara, figlia del suo migliore amico Theo, sviluppa una cotta infantile per lui e gli fa un regalo che, però, Lucas rifiuta. Per vendicarsi, la bambina confessa alla direttrice della scuola di aver subito attenzioni pedofile da Lucas. Dopo qualche giorno di esitazione, la direttrice lo licenzia e invita i genitori degli altri bambini a cercare segni di abuso nei propri figli. La donna è convinta che i bambini non mentano mai e, quindi, che Klara dica la verità. Lucas viene isolato dagli amici e dalla ex moglie, viene insultato e picchiato, nonostante sia del tutto innocente. Dopo un po’, Klara confessa timidamente ai genitori di essersi inventata tutto, mentre le accuse degli altri genitori si scoprono del tutto infondate. Alla fine del film, sembra che Lucas sia riuscito faticosamente a riguadagnare la stima dei suoi amici e delle persone che lo circondano, ma, proprio nella scena finale, ambientata in un bosco dove si tiene una seduta di caccia, qualcuno, che lo spettatore non vede, tenta di ucciderlo con un colpo di fucile, mancandolo di poco. Il messaggio conclusivo del film sembra essere che, quando si è marchiati da un’accusa infamante come quella di essere un pedofilo, è impossibile riabilitarsi davvero agli occhi della comunità, perché una macchia aleggerà sempre sulla testa del sospetto.

La convinzione che i bambini siano “la bocca della verità” e che la loro innocenza impedisca loro di mentire è molto diffusa nella nostra cultura. Il senso comune vuole che i bambini, essendo tali, non posseggono quella “malizia” che, nei grandi, favorisce la menzogna. Sono candidi e, quindi, sempre veritieri. Questa convinzione risalta ancora di più quando i bambini figurano come testimoni o vittime di abusi sessuali o violenze. «Se un bambino afferma di essere stato abusato da un adulto», si ritiene generalmente, “deve essere per forza vero». Quanta attendibilità c’è in questa opinione? È vero che i bambini “non mentono mai”?

La ricerca psicologica ha da tempo rivelato che la mente di un soggetto in età evolutiva presenta delle caratteristiche che invitano a prendere sempre con molta cautela le sue affermazioni e, che, in occasione di sospetti abusi sessuali o violenze, è necessario adottare tecniche e modalità di intervista specifiche se non si vuole correre il rischio di ottenere testimonianze non attendibili. Ad esempio, la memoria di un bambino, soprattutto se molto piccolo, non è paragonabile a quella di un adulto. Secondo alcuni autori, è impossibile ricordare eventi verificatisi prima della maturazione dell’ippocampo (cioè prima dei due-tre anni) e, in ogni modo, più i bambini sono piccoli meno informazioni forniscono durante le deposizioni circa un fatto cui hanno assistito. Anche se il ricordo libero dei piccoli è accurato quanto quello degli adulti, esso è quasi sempre povero (almeno nei molto piccoli) per cui un bambino tende a ricordare pochi elementi di un episodio che gli è accaduto. Ciò anche perché quello che è saliente per un adulto può non esserlo per un bambino (per un bambino la rilevanza di una minaccia proferita da un malintenzionato a un adulto può passare in secondo piano rispetto a un giocattolo presente in scena). I bambini, inoltre, hanno una capacità di riconoscere i volti e di collocare gli eventi nel tempo e nello spazio inferiore agli adulti. Questo limite è sempre da prendere in considerazione quando si interroga un bambino su tempi e luoghi di un misfatto o quando lo si invita a riconoscere un volto fra tanti (De Cataldo Neuburger, 1988).

Un altro limite è dato dalla tendenza dei bambini a dire di sì, anche quando dovrebbero dire di no, a molte domande poste in maniera diretta. Ciò accade sia perché il bambino può voler “far piacere” all’adulto interrogante nella convinzione che questo è quello che vogliono i grandi; sia perché di fronte, ad esempio, a una domanda come «Hai visto un uomo scendere le scale?», un bambino può rispondere di sì, anche quando non ha visto nessuno scendere le scale, solo perché la domanda è posta in maniera tale da avere una risposta sì/no. La ricerca ha poi messo in evidenza che la memoria che un bambino ha di un avvenimento è migliore se l’evento è stato vissuta in prima persona o se il bambino è personalmente coinvolto nell’episodio anziché essere stato un semplice spettatore (Mazzoni, 2003, p. 105).

Inoltre, i bambini sono più suggestionabili degli adulti: tendono più di questi a farsi fuorviare da informazioni errate o domande tendenziose, soprattutto quando chi pone le domande è percepito come una figura autorevole. In un esperimento condotto dalla psicologa Giuliana Mazzoni, alcuni bambini di sei e nove anni assistevano a una scena.

Il giorno dopo venivano fatte loro delle domande fuorvianti sull’evento a cui avevano assistito. Ad esempio veniva chiesto: «Ti ricordi a che ora è entrato in classe il signore che aveva una cartella rossa sotto il braccio?» mentre invece l’uomo aveva un libro in mano. Nel compito di riconoscimento successivo, che avveniva dopo una settimana, il 60% circa dei bambini di sei anni ha scelto la risposta suggerita nella domanda, mentre la percentuale di bambini di nove anni era un po’ inferiore al 40%. Risultati come questo indicano che è in fondo sufficiente una sola domanda mal fatta perché la maggioranza di un gruppo di bambini di sei anni nel successivo compito di memoria riportino l’informazione suggerita anziché ciò che avevano visto realmente (Mazzoni, 2003, p. 108).

Non è infrequente, infine, che i bambini abbiano falsi ricordi (D’Ambrosio, Supino, 2014). Una letteratura molto cospicua ha ormai acclarato che è molto facile impiantare nelle giovani menti dei più piccoli ricordi che non corrispondono alla realtà. Un celebre esperimento condotto da Elizabeth Loftus e Jacqueline Pickrell (1995) dimostrò come sia relativamente semplice introdurre nella memoria di un quattordicenne il ricordo di essersi perso in un centro commerciale all’età di cinque anni e di essere stato ritrovato in lacrime da un anziano avventore. Basta “suggerirgli” il ricordo e sostenere la menzogna con la complicità dei familiari e l’autorevolezza degli sperimentatori.

Falsi ricordi possono accadere anche a persone stimate molto intelligenti. Il celebre psicologo ginevrino Jean Piaget fu convinto fino all’età di 15 anni di aver subito un tentativo di rapimento quando aveva due anni ed era a spasso con la babysitter. Era talmente convinto, che quando la babysitter confessò alla famiglia che per tredici anni aveva mentito sull’episodio, forse per nascondere una sua disattenzione o una scappatella con il fidanzato del momento, non riusciva proprio a crederci. Ecco come lui stesso racconta l’episodio:

Ero nel passeggino, e stavo andando con la tata verso gli Champs Elysées, quando un uomo tentò di rapirmi. Fui trattenuto dalla cinghia che mi teneva fermo, mentre la tata tentava coraggiosamente di mettersi fra me e il rapitore. Si procurò parecchi graffi. Riesco ancora a vedere vagamente i segni sul suo viso. Intorno a noi si radunò una folla di persone, arrivò un poliziotto con un mantello corto e un manganello bianco e l’uomo scappò. Riesco ancora a vedere l’intera scena, e riesco addirittura a individuare dove e accaduto, vicino alla stazione della metropolitana (cit. in Vannucci, 2008, p. 82).

Sebbene sia veramente difficile non credere a un bambino che continua a ripetere di essere stato vittima di abusi o altre violenze, gli psicologi Cavedon e Calzolari affermano che, al momento di chiedere a un bambino di testimoniare, è necessario tener presenti alcune regole chiave. Innanzitutto, in considerazione del fatto che i bambini ritengono sempre che i grandi sappiano tutto e siano per definizione credibili – credenze che aumentano la suggestionabilità dei piccoli – è importante creare un ambiente distensivo e accogliente dove il bambino si senta a proprio agio e possa giocare e disegnare. Inoltre, bisogna instaurare un rapporto amichevole in cui il bambino si senta trattato alla pari e acquisti fiducia nell’adulto.

Ancora, è necessario interrogare il bambino appena dopo il fatto e, se possibile, solo una volta. Gli interrogatori ripetuti nel tempo sono, infatti, la maggior fonte di distorsione del ricordo e quindi di suggestionabilità nel bambino. Infine, è essenziale ricordare che il pensiero dei bambini spesso segue regole che non sono quelle del pensiero adulto. Prima di interrogare un bambino è necessario appurare il suo sviluppo cognitivo (anche in base al rendimento scolastico), la sua capacità di utilizzare il linguaggio e la sua capacità di collocare gli eventi in una progressione temporale e in una dimensione spaziale corrette (Cavedan, Calzolari, 2001).

Anche se i bambini possono essere “senza malizia”, come vuole il senso comune, ciò non significa che le loro testimonianze siano sempre e indubitabilmente accurate. I limiti evolutivi cui sono soggette le loro piccole menti fanno sì che certi errori siano praticamente inevitabili. Sta all’adulto conversare in maniera appropriata con il bambino perché dalla sua bocca esca la verità. In mancanza di competenze specifiche in materia, il rischio di avere un bambino che mente, magari con conseguenze nefaste per gli adulti che gli sono vicini, potrebbe essere immenso. 

Riferimenti

Cavedan A., Calzolari M.G., 2001, Come si esamina un testimone, Giuffrè, Milano.

D’Ambrosio A., Supino P., 2014, La sindrome dei falsi ricordi, Franco Angeli, Milano.

De Cataldo Neuburger L., 1988, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Giuffrè, Milano.

Loftus, E. F., Pickrell, J. E., 1995, “The formation of false memories”, Psychiatric Annals, vol. 25, n. 12, pp. 720-725.

Mazzoni G., 2003, Si può credere a un testimone?, Il Mulino, Bologna.

Vannucci, M., 2008, Quando la memoria ci inganna, Carocci, Roma.

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