George Orwell e il calcio come guerra

Uno dei luoghi comuni più pervicaci riguardo al calcio e allo sport in generale vuole che la pratica sportiva generi fratellanza, solidarietà e altruismo tra i popoli, nonché non meglio specificati “valori”. Che le cose stiano diversamente è noto invece da varie fonti.

Già negli anni Sessanta del XX secolo, il celebre psicologo Muzafer Sherif, in una serie di esperimenti passati alla storia con il nome di “The Robber’s Cave Experiments”, osservò che quando due gruppi sono in competizione per ottenere risorse limitate (come è il caso di una partita di calcio) si genera inevitabilmente un conflitto intergruppo. La situazione non muta se i componenti del gruppo sono cambiati (ad esempio se un calciatore si trasferisce a un’altra squadra, anche dopo aver militato anni nella squadra precedente).

Anche per il sociologo italiano Alessandro Dal Lago, autore del seminale Descrizione di una battaglia (Il Mulino, 2001), il calcio, per sua natura, è la rappresentazione rituale di un conflitto di tipo bellico, un conflitto tra squadre avversarie e tifosi avversari, che ricalca la dicotomia amico-nemico individuata in ambito politico da Carl Schmitt.

È noto poi a tutti che chi tifa per una particolare squadra tende a non nutrire sentimenti amichevoli nei confronti dei tifosi delle squadre avversarie e tende, al contrario, a percepirli come nemici.

La percezione dello spirito sportivo come illusione è ben esplicitata in un breve articolo di George Orwell intitolato The Sporting Spirit, pubblicato nel 1945. In esso, l’autore di 1984 afferma, senza mezze parole, che “quasi tutti gli sport praticati oggi sono agonistici. Si gioca per avere la meglio sull’avversario, e l’incontro ha scarso significato se non si fa il massimo sforzo per vincere”. Orwell arriva a dire che “a livello internazionale, lo sport, per dirla francamente, è un combattimento simulato”, che coinvolge calciatori e spettatori. Il suo pensiero è riassunto nella seguente frase:

La gente vuole vedere una squadra vittoriosa e l’altra umiliata, e dimentica che la vittoria ottenuta barando o grazie all’intervento della folla non ha alcun valore. Anche quando gli spettatori non intervengono fisicamente, essi cercano di influenzare l’incontro incoraggiando la propria squadra e demoralizzando i giocatori avversari con fischi e insulti. Lo sport serio non ha niente a che fare con il fair play. È un miscuglio di odio, gelosia, vanagloria, inosservanza di ogni regola e piacere sadistico di assistere a manifestazioni di violenza: in altre parole è la guerra senza i proiettili.

Alla vigilia dell’inizio del campionato di calcio italiano 2017-2018, queste parole dovrebbero farci riflettere. Sta per iniziare una guerra. Metaforica, quanto si vuole. Senza proiettili, certamente. Ma una guerra senz’altro. Anche se giornalisti, opinionisti e benpensanti continueranno a ripeterci fino alla fine che “Il calcio è solo un gioco”.

Allora, prima del calcio d’inizio, rileggete, nella mia traduzione, l’articolo di Orwell per non subire passivamente i soliti luoghi comuni sul calcio e lo sport.

George Orwell

Lo spirito sportivo

(1945)

Ora che la fugace visita della squadra di calcio della Dinamo è giunta al termine, è possibile esprimere pubblicamente ciò che molte persone assennate già dicevano in privato prima dell’arrivo della Dinamo: ovvero che lo sport è motivo incessante di ostilità, e che se una visita del genere ha avuto un qualche effetto sulle relazioni anglo-sovietiche, è solo nel senso di renderle leggermente peggiori di prima.

Nemmeno i quotidiani sono stati in grado di mascherare il fatto che almeno due dei quattro incontri disputati hanno suscitato molta animosità. Durante la partita dell’Arsenal – mi è stato riferito da qualcuno che era presente – un   calciatore britannico e uno russo sono venuti alle mani e la folla ha espresso disapprovazione nei confronti dell’arbitro. La partita di Glasgow – mi ha informato un altro spettatore – è stata nient’altro che una baraonda sin dall’inizio. E poi c’è stata la polemica, così tipica della nostra epoca nazionalistica, sulla composizione della squadra dell’Arsenal. Era davvero una squadra rappresentativa di tutta l’Inghilterra, come sostenevano i russi, o solo una squadra del campionato inglese, come sostenuto dai britannici? E la Dinamo ha posto termine bruscamente alla propria tournée per evitare di affrontare una squadra rappresentativa di tutta l’Inghilterra? Come al solito, ognuno risponde in base alle proprie preferenze politiche. Non tutti, comunque. Ho notato con interesse, a riprova delle feroci passioni che il calcio suscita, che il corrispondente sportivo del filorusso «News Chronicle» ha sposato la posizione antirussa e ha dichiarato che l’Arsenal non è rappresentativo dell’Inghilterra. Certamente, la polemica ricorrerà per anni tra le note a piè di pagina dei libri di storia. Nel frattempo, le conseguenze della tournée della Dinamo, se ci sono state, avranno creato nuova ostilità da entrambe le parti.

E come potrebbe essere altrimenti? Rimango sempre esterrefatto quando sento dire che lo sport genera amicizia tra le nazioni, e che se solo la gente comune dei popoli di tutto il mondo potesse incontrarsi su un campo di calcio o di cricket, non avrebbe alcun desiderio di incontrarsi su un campo di battaglia. Anche se non fosse già chiaro da esempi concreti (i Giochi Olimpici del 1936, ad esempio) che le competizioni sportive internazionali provocano orge di livore, lo si potrebbe capire da alcuni principi generali.

Quasi tutti gli sport praticati oggi sono agonistici. Si gioca per avere la meglio sull’avversario, e l’incontro ha scarso significato se non si fa il massimo sforzo per vincere. Al parco del paese, dove si sceglie in quale squadra giocare senza farsi prendere da sentimenti di patriottismo locale, è possibile gareggiare per divertimento e per fare dell’attività fisica. Ma non appena fa capolino la questione del prestigio, non appena si avverte che, in caso di sconfitta, il disonore ricadrà su di sé e su una entità superiore, si scatenano gli istinti aggressivi più brutali. Chiunque abbia giocato anche solo una partita di calcio a scuola è consapevole di questo fenomeno. A livello internazionale, lo sport, per dirla francamente, è un combattimento simulato. Ma ciò che è significativo non è la condotta dei calciatori, ma l’atteggiamento degli spettatori; e, al di là degli spettatori, delle nazioni che vanno su tutte le furie a causa di queste assurde competizioni, e credono seriamente — almeno per brevi periodi — che correre, saltare e dare calci a una palla siano una prova di virtù nazionale.

Perfino un gioco tranquillo come il cricket, che richiede grazia più che forza, può suscitare molto attrito, come è apparso evidente dalla polemica sulla strategia del bodyline* e sulle tattiche rudi della squadra australiana che visitò l’Inghilterra nel 1921. Il calcio, uno sport in cui tutti si fanno male e ogni nazione ha il suo stile di gioco che sembra sleale agli stranieri, è molto peggio. Ma lo sport peggiore di tutti è il pugilato. Uno degli spettacoli più orrendi al mondo è assistere a un combattimento tra un pugile bianco e uno di colore davanti a un pubblico misto. Il pubblico di un incontro di pugilato è sempre disgustoso, e la condotta delle donne, in particolare, è tale che l’esercito, credo, non permette loro di assistere alle proprie competizioni. In ogni modo, due o tre anni fa, in occasione di un torneo di pugilato tra le Home Guards** e le truppe regolari, fui piazzato di guardia all’ingresso con l’ordine di tenere lontane le donne.

In Inghilterra, l’ossessione per lo sport è radicata, ma nelle nazioni più giovani, dove gare di squadra e nazionalismo sono entrambe acquisizioni recenti, esso genera passioni ancora più violente. In paesi come l’India o la Birmania, durante le partite di calcio, è necessario formare solidi cordoni di polizia per impedire alla folla di invadere il campo. In Birmania, ho visto i sostenitori di una squadra farsi largo tra la polizia e mettere fuori gioco il portiere della squadra avversaria nel momento cruciale della partita. In Spagna la prima grande partita di calcio fu giocata circa quindici anni fa e provocò una rissa incontenibile. Non appena emergono forti sentimenti di rivalità, la decisione di giocare secondo le regole viene sempre meno. La gente vuole vedere una squadra vittoriosa e l’altra umiliata, e dimentica che la vittoria ottenuta barando o grazie all’intervento della folla non ha alcun valore. Anche quando gli spettatori non intervengono fisicamente, essi cercano di influenzare l’incontro incoraggiando la propria squadra e demoralizzando i giocatori avversari con fischi e insulti. Lo sport serio non ha niente a che fare con il fair play. È un miscuglio di odio, gelosia, vanagloria, inosservanza di ogni regola e piacere sadistico di assistere a manifestazioni di violenza: in altre parole è la guerra senza i proiettili.

Invece di blaterare della sana e pulita rivalità calcistica e della grande parte avuta dai Giochi Olimpici nel ricongiungere le nazioni, è più utile chiedersi come e perché sia nato il culto moderno dei giochi. La maggioranza dei giochi a cui oggi ci dedichiamo ha origini antiche, ma lo sport non sembra essere stato preso molto sul serio tra l’epoca romana e il diciannovesimo secolo. Nelle scuole pubbliche inglesi, il culto dello sport non ha avuto inizio se non nella seconda parte dell’ultimo secolo. Il dr. Arnold, generalmente considerato come il fondatore della moderna scuola pubblica inglese, considerava i giochi come una mera perdita di tempo. Poi, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, i giochi sono diventati attività in grado di attirare massicci finanziamenti ed enormi folle e di suscitare passioni selvagge, e il contagio si è diffuso da una nazione all’altra. A diffondersi maggiormente sono stati gli sport più violenti e competitivi: il calcio e il pugilato. Non vi è dubbio alcuno che questo fenomeno sia legato alla nascita del nazionalismo, ovvero alla dissennata abitudine moderna di identificarsi con grandi centri di potere e vedere tutto in termini di prestigio competitivo. Inoltre, è più probabile che i giochi organizzati fioriscano nelle comunità urbane dove le persone vivono, in genere, una vita sedentaria o comunque limitata e non hanno molte opportunità di svolgere un lavoro creativo. In una comunità rurale, il ragazzo consuma gran parte della sua energia in eccesso camminando, nuotando, tirando palle di neve, arrampicandosi sugli alberi, cavalcando e dedicandosi a vari sport che prevedono atti crudeli contro gli animali, come la pesca, il combattimento tra galli e la caccia ai ratti. In una grande città, è necessario dedicarsi ad attività di gruppo se si vuole dare sfogo alla propria energia fisica o ai propri impulsi sadici. I giochi sono presi sul serio a Londra e a New York, e furono presi sul serio a Roma e a Bisanzio. Nel Medioevo erano praticati, e probabilmente praticati con molta durezza fisica, ma non avevano niente a che fare con la politica né erano motivo di odio tra i gruppi.

Se si volesse incrementare l’enorme riserva di ostilità esistente nel mondo in questo momento, non ci sarebbe nulla di meglio che organizzare una serie di partite di calcio tra ebrei e arabi, tedeschi e cechi, indiani e britannici, russi e polacchi, italiani e jugoslavi, assicurandosi che a ogni incontro assista un pubblico misto di 100.000 spettatori. Non intendo dire, ovviamente, che lo sport sia una delle cause principali della inimicizia tra le nazioni; lo sport su larga scala è esso stesso, credo, meramente un altro effetto delle cause che hanno prodotto il nazionalismo. Però, non si migliorano di certo le cose se si manda una squadra di undici uomini, designati campioni nazionali, a battersi contro una squadra rivale, e si lascia credere a tutti che la nazione sconfitta “perderà la faccia”.

Spero, quindi, che non daremo seguito alla visita dei calciatori della Dinamo inviando una squadra britannica in Unione Sovietica. Se proprio dobbiamo farlo, inviamo una squadra di secondo piano destinata a sicura sconfitta, che nessuno potrà definire rappresentativa della Gran Bretagna nel suo complesso. Ci sono già abbastanza cause reali di problemi per aggiungerne altre, incoraggiando dei giovani a darsi calci sugli stinchi tra gli strepiti di spettatori inferociti.

* Nel 1932, per contrastare l’abile battitore australiano Donald Bradman, gli inglesi escogitarono un’astuta tattica di tiro: piuttosto che cercare di colpire i paletti, mirarono direttamente al corpo di Bradman. La famosa bodyline series causò un incidente diplomatico e portò a un cambiamento nelle leggi del cricket (N.d.T. Fonte)

** Organizzazione di difesa dell’esercito britannico, attiva tra il 1940 e il 1944, che arrivò a contare tra le sue file circa un milione e mezzo di volontari che agirono come forza armata di difesa secondaria, in caso di invasione da parte di truppe della Germania nazista (N.d.T. Fonte)

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