È vero che “ambasciator non porta pena”?

Non è difficile dimostrare la falsità di uno dei più diffusi detti in assoluto; talmente diffuso da essere entrato nel senso comune e venir dato per scontato, autoevidente. Si tratta del celebre “ambasciator non porta pena” (che ha equivalenti anche in altre lingue come, in inglese, Don’t shoot the messenger o, in latino relata refero), massima che dovrebbe riferirsi al fatto che chi è incaricato di recare una notizia non è responsabile del contenuto di questa.

Sebbene ciò sia fattualmente vero, la realtà psicologica è ben diversa.

Già storicamente, è noto che gli ambasciatori di notizie relative a eventi di cui non erano responsabili hanno spesso fatto una brutta fine. Si narra, ad esempio, che, nel 480 a.C. gli spartani di Leonida uccisero gli ambasciatori del re persiano Serse che si stava avvicinando con le sue truppe alle città greche. Anche il re di Fidene Tolumnio fece massacrare, nel 438 a.C.,  quattro ambasciatori romani che erano venuti a chiedergli il motivo di un cambio di alleanza della sua città. E gli esempi potrebbero continuare.

Al di là della storia, però, una caratteristica della comunicazione interpersonale insegna che si è in generale ritrosi a comunicare problemi, anche quando è evidente che non se ne è responsabili. La contrarietà dataci da una cattiva notizia, infatti, si trasmette a chi la comunica. Questo perché, consapevolmente o inconsapevolmente, tendiamo ad associare i fenomeni che si presentano accoppiati.

È quanto ha dimostrato uno dei padri della psicologia contemporanea, il russo Ivan Pavlov (1849-1936), il quale, agli inizi del Novecento, condusse una serie di esperimenti con i cani destinati a divenire una pietra miliare della disciplina; esperimenti che resero a tutti noti i concetti di “riflessi condizionati” e “riflessi incondizionati”.

In essi, come si ricorderà, Pavlov partiva dalla constatazione che, alla vista di porzioni di cibo, le ghiandole salivari dei cani si mettevano in azione, producendo saliva. Il solo suono di un campanello, invece, non provocava alcuna reazione nelle ghiandole salivari. A questo punto, Pavlov fece in modo che la presentazione del cibo venisse frequentemente associata al suono del campanello. Dopo un certo numero di esposizioni ai due stimoli associati, bastava che il cane udisse il solo suono del campanello perché le ghiandole salivari entrassero in attività. Il suono del campanello – stimolo condizionato – produceva da solo la stessa reazione della vista del cibo – stimolo incondizionato.

Lo stesso meccanismo funziona anche per sensazioni di segno opposto. Laddove il riflesso condizionato sia di sgradevolezza – ad esempio, i sentimenti di contrarietà provocati dall’apprendere una cattiva notizia – c’è il rischio che tale sgradevolezza si estenda per associazione a chi, pur essendo incolpevole, trasmette la cattiva notizia. Ne è un esempio la tendenza ben nota dei politici a comunicare personalmente le buone notizie ai propri elettori, delegando invece le cattive ai sottoposti di turno. Ciò al fine di non lasciare che la propria immagine sia “contaminata” dalla negatività dell’informazione.

Ricerche più recenti hanno confermato che chi comunica cattive notizie tende ad essere percepito negativamente, anche se non condivide la notizia comunicata (Tesser, Rosen, Batchelor, 1972; Manis, Cornell, Moore, 1974).

Del resto, nella vita quotidiana, gli individui tendono a prendere le distanze anche da chi reputano indesiderabile o sgradevole (tossicodipendenti, delinquenti ecc.), come sa chiunque, accusato ingiustamente, si veda improvvisamente abbandonato da amici e conoscenti. Allo stesso modo, nello sport, la sconfitta della squadra per cui si parteggia può indurre il tifoso a ridurre o recidere, almeno provvisoriamente, il legame con essa, evitando di parlare dell’incontro perso, di interagire con i tifosi della propria squadra o di altre squadre, di guardare in televisione le immagini della sconfitta patita, minimizzando il proprio coinvolgimento emotivo nella perdita ecc.

Possiamo, quindi, dire che, contrariamente al detto popolare, il messaggero “porta pena”. La popolarità della massima si deve, anzi, probabilmente, al fatto che essa rappresenta un tentativo di difesa di un ruolo percepito da sempre come ingrato, ma indispensabile, quando si tratta di comunicare informazioni spiacevoli.

Ma c’è anche un altro elemento da considerare. Spesso, di fronte a situazioni negative, abbiamo il desiderio di trovare un senso a esse, attribuendo la colpa a qualcuno. La “scoperta” di un nemico ci consente di scovare un significato nelle circostanze negative e di trovarvi soluzione attraverso l’eliminazione fisica del “male”, rappresentato, in questo caso, dall’ambasciatore stesso, anche se innocente.

Il detto “ambasciator non porta pena”, in conclusione, appare un concentrato di effetti psicologici, più o meno noti. Come accade con quasi tutti i detti celebri, se ci si propone di analizzarli criticamente, emergono contraddizioni, aporie, corti circuiti logici. È lo scotto che paghiamo alla saggezza popolare, che vorrebbe ridurre ad aforisma la complessità delle vicende umane, sbagliando quasi sempre.

Riferimenti:

Manis, M., Cornell, S. D., Moore, J. C., 1974, “Transmission of attitude relevant information through a communication chain”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 30, n. 1, pp. 81-94.

Tesser, A., Rosen, S., Batchelor, T. R., 1972, “On the reluctance to communicate bad news (the mum effect): A role play extension”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 40, n. 1, pp. 88-103.

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