Ogni tanto mi capita di imbattermi in programmi televisivi o radiofonici, conversazioni quotidiane, riflessioni in cui sono espresse considerazioni sui rapporti tra lingua e sessismo. La lingua, si dice, è intrinsecamente sessista e “patriarcale” (qualunque cosa si intenda con questo termine) e lo dimostrerebbe, fra l’altro, l’uso di espressioni come “Lei è la mia donna”, “Lei è la mia ragazza”, “Lei è la mia fidanzata” in cui l’aggettivo possessivo “mia” esprimerebbe, appunto, possesso e denoterebbe, quindi, una condizione di dominio di un partner (il maschio, ovviamente) sull’altro. Queste espressioni sarebbero da evitare e da sostituire con altre più “corrette” come “Io e lei stiamo insieme”, “Lei è la persona con cui (con)vivo” ecc.
Sono convinto che, almeno in questo caso, l’accusa di sessismo sia fuori luogo.
È vero che, generalmente, gli aggettivi possessivi indicano possesso. Se dico: “Questo è il mio libro” intendo “Questo è il libro che possiedo/il libro di cui io sono il proprietario”. Se dico “Quella è la mia casa” intendo che la casa appartiene a me e a nessun altro.
Ma gli aggettivi possessivi, a dispetto del loro nome, non significano esclusivamente possesso. Talvolta, indicano rapporti sentimentali, di parentela, di amicizia, di affetto, di lavoro, di conoscenza, di vicinanza. Se, ad esempio, dico “Lei è mia suocera” non intendo dire che la suocera mi appartiene o che sono in un rapporto di dominio/subalternità con lei. Intendo dire che la donna che indico è con me in un rapporto di parentela per cui io sono per lei suo genero, lei è per me mia suocera. Non c’è possessività. Allo stesso modo, se dico “Carlo è mio amico” non voglio dire che “sono il proprietario di Carlo”, ma che io e lui siamo in rapporto di amicizia. “Giulia è una mia collega” non vuol dire che Giulia mi appartiene come un oggetto, ma che siamo impegnati in una comune relazione lavorativa.
Che le cose stiano così lo dimostra anche il fatto che le relazioni descritte sono reciprocabili. Posso dire “Giulia è una mia collega” così come, facendo finta che il mio nome sia Carlo, Giulia può dire “Carlo è un mio collega”. “Sara è mia cugina” può essere reciprocato in “Carlo è mio cugino”. “Sonia è mia cognata” ha il suo complementare in “Carlo è mio cognato”.
Lo stesso può dirsi per i rapporti sentimentali. Se dico “Lei è la mia ragazza”, lei può dire “Lui è il mio ragazzo”. “Maria è la mia fidanzata” trova il suo corrispettivo in “Carlo è il mio fidanzato” e così via. Se il rapporto espresso dall’aggettivo possessivo rimandasse esclusivamente a una relazione di subordinazione, tale reciprocità non potrebbe avere luogo. Ad esempio, posso dire “Questo è il mio libro”, ma il libro non può dire “Questo è il mio umano”.
In sostanza, gli aggettivi possessivi possono indicare appartenenza e possesso, ma anche la relazione che una persona ha con un’altra. Ovviamente, in alcuni casi, è possibile che l’aggettivo che designa una relazione connoti per il parlante un possesso, ma questo è un altro discorso. La lingua può spesso essere piegata a usi personali o collettivi “devianti”. Un uomo che dice: “Questa è mia moglie” può forse intendere “Questa donna è mia proprietà”. Ma ciò non significa che questo uso sia generalizzabile a tutti coloro che si esprimono in questo modo. Né che connoti automaticamente una relazione di tipo “patriarcale” (qualunque cosa si intenda con questo termine). Il rischio è di vedere del marcio anche lì dove non c’è; oppure dominio e potere lì dove c’è un rapporto di tipo paritario. Come se le relazioni umane non potessero essere altro che asimmetriche.