Amore della patria e amore della gloria

Moltissime volte anzi la più parte si prende l’amor della gloria per l’amor della patria. P. e. si attribuisce a questo la costanza dei greci alle termopile, il fatto d’Attilio Regolo (se è vero) ec. ec. le quali cose furono puri effetti dell’amor della gloria, cioè dell’amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio, e però come i maomettani si espongono alla morte, anzi la cercano per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria cercavano la morte i patimenti ec. ed è evidente che così facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza necessità né utile, (come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile) e da quegli Spartani accusati dall’opinione pubblica d’aver fuggito la morte alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria ma per la vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l’amor puramente della patria, anche presso antichi era un mobile molto più raro che non si crede. Piuttosto quello della libertà, l’odio di quelle tali nazioni nemiche ec. affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben intendere, perché il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo (Giacomo Leopardi, 2022, Zibaldone, Mondadori, Milano, p. 58).

E se l’altruismo non fosse altro che una forma travisata di egoismo? Se i sacrifici da noi compiuti per la “famiglia” o per i “figli” non fossero altro che atti al servizio dell’esaltazione del nostro ego sotto mentite spoglie?

È questo quello che sembra chiedersi Giacomo Leopardi nella riflessione posta al principio di questo post. Del resto, il sospetto che molte azioni eseguite nel nome dell’altro abbiano luogo, in realtà, nel nome del sé fa spesso capolino nei nostri pensieri più cinici.

Il servigio reso alla propria amata non ha forse l’obiettivo di conquistare o consolidare il suo amore per noi?

La condotta “disinteressata” del volontario non trova spesso la sua spiegazione nel desiderio di sentirsi bene con sé stessi o sopire un senso di colpa?

Il lavoro che ci chiede di rimanere in ufficio ben oltre le ore previste e che giustifichiamo chiamando in causa il nobile “dovere” non trova, invece, la sua ratio nelle maggiori entrate economiche che ne derivano e/o nell’accrescimento del nostro status sociale (“È un grande lavoratore!”)?

Le lunghe, monotone preghiere e funzioni religiose cui si sottopone il credente fervido non hanno forse la finalità di conquistare un posto nell’alto dei Cieli e salvare la propria anima?

Il terrorista che si fa esplodere nel nome di Allah non ambisce forse a essere accolto in quello speciale paradiso islamico popolato da 72 (ma ci sono dubbi) vergini purissime pronte a dedicare la propria vita ultramondana all’eroe che si è fatto esplodere?

Infine, come osserva Leopardi, l’estremo sacrificio compiuto a favore della patria non potrebbe nascondere un gesto teso a promuovere la nostra gloria e, quindi, celare una motivazione egoistica?

Domande impertinenti, certo. Sicuramente ciniche. Ma forse ha ragione il poeta recanatese quando dice che “il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo”.

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