“Aiutiamoli a casa loro”

Nel 2017, fu l’allora segretario del Partito Democratico Matteo Renzi a sbandierare quello che è tuttora uno degli slogan più ricorrenti sul tema dell’immigrazione. Prima e dopo di lui, Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, ne ha fatto un emblema della sua politica internazionale, a testimonianza del fatto che le strade di Destra e Sinistra talvolta si incrociano e convergono. Ma anche nel resto d’Europa e del mondo, l’idea espressa dall’ormai celebre “Aiutiamoli a casa loro” è stato condivisa da politici, opinionisti, esperti e cittadini comuni di ogni appartenenza sociale e intellettuale.

È probabile che al suo successo abbia contribuito anche il suo risvolto umanitario. Lo slogan, infatti, suona molto meglio dei programmi che invocano il pugno di ferro sull’immigrazione e non a caso ha acquisito una certa popolarità anche negli ambienti di sinistra, perché associa il tema dell’immigrazione al contrasto alle ingiustizie, alla povertà e alle disuguaglianze.

Del resto, almeno a prima vista, il ragionamento sembra assennato e risponde a una logica semplicissima, se non banale: se aiutiamo i poveri dei Paesi in via di sviluppo a rimanere a casa, questi non avranno più bisogno di emigrare, imbarcandosi in viaggi disperati alla mercé di trafficanti e sfruttatori di ogni tipo, con grande sollievo di governanti e cittadini dei ricchi Paesi occidentali, ossessionati dall’idea che i loro confini siano quotidianamente attraversati da torme di “invasori” stranieri disposti a tutto pur di cambiare aria.

Così, di fronte all’impossibilità di contenere l’immigrazione legale o illegale attraverso un controllo più rigoroso delle frontiere, quale via migliore per ridurre la pressione migratoria che affrontare le “cause profonde”, delle migrazioni, promuovendo lo sviluppo economico nei Paesi di origine dei migranti? Ecco quindi piovere proposte per favorire il commercio e la cooperazione internazionale, fornire aiuti allo sviluppo, promuovere prospettive economiche e pari opportunità, sicurezza e progresso, offrendo denaro e servizi, costruendo scuole e infrastrutture, valorizzando le risorse locali.

Nel 2015, ad esempio, la Commissione Europea creò il “Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa” (valore di oltre 4,5 miliardi di euro, finanziato principalmente attraverso il Fondo europeo di sviluppo) allo scopo di avviare programmi economici che creassero opportunità di lavoro, in particolare per i giovani e le donne, con un’attenzione particolare alla formazione professionale e alla creazione di micro e piccole imprese. Il Fondo era rivolto soprattutto ai Paesi più instabili dell’Africa, fra cui Eritrea, Nigeria, Senegal e altri Paesi di origine di migliaia di migranti. Anche i governi di questi ultimi hanno abbracciato idee simili, esortando i Paesi europei a lanciare una sorta di Piano Marshall per l’Africa.

“Aiutiamoli a casa loro” appare, dunque, come un modo intelligente di risolvere la questione delle migrazioni, eliminando il problema alla radice.  

Ma le cose stanno davvero in questi termini? Sembrerebbe di no.

In primo luogo, perché spesso i tanti programmi salvifici che mirano a promuovere sviluppo e modernità nelle regioni povere del mondo appaiono talvolta poco credibili complessivamente sia per gli “aiuti” modesti che elargiscono, sia per la logica “coloniale” che li caratterizza, per cui l’aiuto diventa un modo per imporre condizionamenti e controlli, sia perché, per funzionare, gli aiuti presuppongono spesso regimi politici locali aperti al liberalismo e al liberismo (cosa niente affatto scontata), sia perché i Paesi destinatari di tali fondi non possono spesso decidere la natura delle iniziative che vengono finanziate, sia perché tali aiuti finiscono spesso con l’arricchire le già prospere élite locali o favorire cicli corruttivi e speculazioni di ogni tipo, che tutto fanno trarre favorire lo sviluppo.

Ma c’è un secondo, forse più importante motivo, per cui il programma “Aiutiamoli a casa loro” non risolve affatto il problema delle migrazioni. Perché, come osserva il sociologo olandese Hein de Haas «è tutta l’idea che il sostegno e lo sviluppo ridurranno la migrazione dai Paesi poveri a essere irrealistica, basandosi su interpretazioni completamente sbagliate delle cause della migrazione» (de Haas, 2024, p. 128).

Addirittura, fa notare de Haas, i fatti e la storia dimostrano senza ombra di dubbio una situazione diametralmente opposta: l’emigrazione, paradossalmente, tende a essere più alta nei Paesi che hanno già raggiunto un certo livello di sviluppo economico, di urbanizzazione e di modernizzazione.

A dispetto di quanto teorizzato dai modelli economici neo-classici, secondo cui il miglioramento nelle condizioni di vita e la diminuzione della povertà favoriscono un decremento dei flussi migratori, la realtà ci dice che i tassi di emigrazione dai Paesi più poveri al mondo, come quelli dell’Africa subsahariana, verso le nazioni occidentali sono molto bassi e che i Paesi con la più alta emigrazione al mondo, Messico, Turchia, Marocco, India e Filippine, sono tutti Paesi a reddito medio.

Più in dettaglio, ciò che emerge a una attenta osservazione è che il rapporto tra sviluppo umano e tassi di emigrazione aumenta «quando i Paesi poveri diventano più ricchi e diminuisce solo quando passano da una condizione di reddito medio a una di reddito alto» (de Haas, 2024, pp. 132-133).

Il fenomeno per cui lo sviluppo economico conduce inizialmente a una crescita dell’emigrazione è noto nella letteratura scientifica, come «transizione della mobilità» o «transizione della migrazione».  Esso fu descritto per la prima volta dal geografo americano Wilbur Zelinsky in un articolo del 1971 intitolato The Hypothesis of the Mobility Transition, «in cui sosteneva che tutte le forme di mobilità interna e internazionale accelerano inizialmente quando le società passano da un assetto rurale-agrario a uno urbano-industriale e attraversano transizioni demografiche» (de Haas, 2024, pp. 133-134).

Ciò vuol dire che se, in un Paese, si verifica la transizione da una società a reddito basso a una a reddito medio, l’emigrazione all’inizio aumenta, per poi decrescere solo quando il Paese raggiunge i livelli più alti di reddito globale.

Ma perché ciò avviene? Perché la crescita economica, migliori strutture scolastiche e infrastrutture portano a un aumento delle capacità e delle aspirazioni a emigrare degli individui. Un reddito più alto, superiore al livello della povertà, accresce la capacità delle persone di procurarsi denaro per pagare biglietti, passaporti, visti, cibo e alloggio, nonché le commissioni da corrispondere a reclutatori e intermediari. Un’istruzione migliore aumenta le potenzialità migratorie perché chi ha competenze e diplomi trova più facilmente lavoro all’estero e può garantirsi un permesso di soggiorno. Chi è povero, invece, non possiede le risorse per pagare gli scafisti, corrompere la polizia di frontiera e trovare alloggio e lavoro nei Paesi di arrivo e, se si sposta, lo fa solo su brevi distanze, fino al villaggio o alla città più vicini.

Lo sviluppo tende ad aumentare anche le aspirazioni delle persone a emigrare. Quando i giovani vanno a scuola, guardano la tv, navigano su Internet, usano lo smartphone, ascoltano la radio, vedono quello che succede nel mondo, il loro orizzonte mentale si allarga e, con esso, il desiderio di andare via dagli ambienti rurali e raggiungere le aree urbane e i Paesi esteri. Inoltre, essere istruiti si accompagna spesso a una certa disillusione nei confronti degli stili di vita tradizionali, ai quali le nuove generazioni preferiscono un futuro diverso.

Ironia della sorte, dunque, osserva de Haas,

costruire una scuola sembra la migliore strategia a lungo termine per svuotare le campagne, perché dopo aver studiato per un certo numero di anni, i giovani non riescono più a immaginarsi come contadini e preferiscono trasferirsi in città, sia nel loro Paese che all’estero. Il desiderio di istruzione è spesso di per sé un motivo per migrare, desiderio che inizia in giovane età se le scuole primarie o secondarie sono assenti nei villaggi e nelle cittadine. Una volta che i giovani terminano la scuola secondaria, sono più propensi a migrare in un altro luogo per proseguire con l’università. E una volta laureati, ci sono buone probabilità che dovranno spostarsi nuovamente per trovare un lavoro che corrisponda alle loro aspirazioni e qualifiche (de Haas, 2024, p. 140).

Dati alla mano, in conclusione, l’idea che lo sviluppo economico costituisca il rimedio più efficace per risolvere le cause profonde della migrazione si basa su presupposti del tutto inesatti. In realtà, a mano a mano che la povertà diminuisce e redditi e istruzione aumentano, l’emigrazione cresce perché crescono contemporaneamente il desiderio e le capacità delle persone di migrare.

Le società che si trovano nel mezzo della transizione da economie agrarie-rurali a economie industriali-urbane producono il più alto volume di migrazione internazionale e da contesti rurali a urbani. Solo quando una società passa da un reddito medio a uno più alto, la migrazione da aree rurali a urbane tende a rallentare. Una volta che una nazione ha raggiunto lo status di reddito alto, il desiderio di trasferirsi all’estero diminuisce perché più persone sono in grado di realizzare le loro aspirazioni di vita rimanendo a casa.

Superato un punto critico di sviluppo economico, i tassi di emigrazione cominciano a decrescere e il Paese inizia ad attrarre lavoratori provenienti da Paesi più poveri (de Haas, 2024, p. 143).

Ciò significa forse che i Paesi ricchi dovrebbero smettere di aiutare i Paesi poveri, istituendo programmi per favorirne lo sviluppo? Ovviamente, no. Ma è importante capire che la transizione migratoria è un processo lungo, che può provocare un’attenuazione dei tassi di migrazione solo nel lungo periodo, e che richiede diverse generazioni per potersi completare. È un’illusione, dunque, pensare che fornire aiuti nel presente possa portare a un’interruzione delle migrazioni nel presente. Un fatto che i politici spesso non considerano (o non vogliono considerare), abbacinati dalla necessità di risolvere tutto nei tempi brevi dei loro mandati, e i cittadini non colgono, affascinanti dall’apparente risolutezza dello slogan e luogo comune “Aiutiamoli a casa loro”.

Riferimenti

De Haas, H., 2024, Migrazioni. La verità oltre le ideologie. Dati alla mano, Einaudi, Torino, pp. 125-146.

Zelinsky, W., 1971, “The Hypothesis of the Mobility Transition”, Geographical Review, vol. 61, pp. 219-249.

Questa voce è stata pubblicata in Luoghi comuni e contrassegnata con , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.