Serial killer per un caso linguistico

Il serial killer è ormai una figura consolidata dell’immaginario criminale dei nostri tempi. Contende al pedofilo la palma del “cattivo più cattivo” ed è presente in quasi tutti i thriller che si rispettino. Considerando la frequenza statistica assolutamente trascurabile nella popolazione carceraria di questo tipo criminale e la sua abbondante sovrarappresentazione nella letteratura e nei film di genere, si può dire a ragione che il serial killer è soprattutto un’invenzione di scrittori e registi che ne hanno imposto l’archetipo in modo massiccio. Il serial killer che temiamo, insomma, non corrisponde alla realtà, ma a ciò che apprendiamo dai libri che leggiamo e dai film che guardiamo.

Ciò detto, sono noti gli sforzi di criminologi ed emuli vari di proporre classificazioni più o meno rilevanti del fenomeno dell’omicidio seriale. Si parla di serial killer organizzato e disorganizzato; di spree killers e di killer missionari o edonistici. Le tassonomie sono molteplici. Una delle tipologie più pericolose di serial killer è il cosiddetto lust killer, tradotto a volte con l’espressione “Omicida per libidine” (lust però indica anche uno dei sette peccati capitali, la “lussuria”). Il lust killer uccide le proprie vittime ricavando piacere sessuale dall’omicidio. Sembra che il primo a parlarne sia stato Richard von Krafft-Ebing, autore di uno dei più noti trattati sulle psicopatologie sessuali, Psychopathia sexualis (1886). Il termine, però, è stato ripreso dai criminologi contemporanei, in particolare da Holmes e De Burger, per designare, appunto, un tipo di serial killer spinto da impulsi sessuali incontrollabili a mutilare e uccidere le proprie vittime e, in questa veste, compare in numerosi libri e film dai quali abbiamo ormai tratto una conoscenza approfondita di questo tipo di criminale.

Secondo il sociologo Philip Jenkins, lust killer sarebbe originariamente una cattiva traduzione dell’espressione tedesca lustmörd che propriamente vuol dire “omicidio per piacere” oppure “omicidio per svago”. Il termine fu coniato da alcuni psichiatri e studiosi tedeschi per descrivere l’ondata di omicidi sessuali che si verificò in Germania nei primi anni del XX secolo e non aveva all’inizio alcuna connotazione sessuale, né tantomeno alcun legame con il peccato della lussuria. Successivamente, operando una sorta di calco, l’espressione fu mal tradotta e fortemente sessualizzata, oltre che investita di un alone quasi religioso. Un termine puramente tecnico e descrittivo passò, in questo modo, a significare un impulso sessuale estremamente patologico e bizzarramente connotato in senso peccaminoso. Secondo Jenkins, i responsabili di questo slittamento semantico furono probabilmente alcuni scienziati tedeschi emigrati in America che “formarono” i loro allievi americani all’uso mal tradotto del termine favorendone la diffusione e il radicamento nel vocabolario criminologico della prima metà del XX secolo. Con il tempo, lust killers fu adottato anche dall’FBI e acquisì, dunque, uno status ufficiale oggi divenuto patrimonio indiscusso per schiere di criminologi in tutto il mondo. Per Jenkins, questo errore ha consentito di reintrodurre un termine che richiama idee di bene e male all’interno di una disciplina come la criminologia che dovrebbe invece rimanere “laica” per definizione. Del resto, il vocabolario che viene oggi adoperato per descrivere il mondo degli omicidi seriali è tutto pervaso da termini con forti connotazioni mitologiche. Si parla, infatti, di “mostri”, “angeli della morte”, “bestie predatrici”, “cannibali”, “mind-hunters” (cacciatori della mente, per descrivere chi si occupa di catturare gli omicidi seriali) ecc.  Questa mitologizzazione ha indubbiamente contribuito ad accrescere il fascino dei serial killer che, agli occhi delle persone medie, non sono assassini come tutti gli altri, ma esseri quasi sovraumani. Potenza dei libri e della televisione, certo. Ma, almeno in parte, anche di un errore di traduzione.

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