L’invenzione del Disturbo post-traumatico da stress

Si tende comunemente a pensare che una diagnosi psichiatrica corrisponda a un disturbo realmente esistente: se c’è un nome c’è anche la malattia. La realtà è che spesso determinate diagnosi sono costruzioni sociali, risposte umane a istanze socialmente e politicamente circoscritte. Prendiamo il caso di uno dei disturbi oggi più noti: il Disturbo post-traumatico da stress.

Come afferma lo psichiatra Derek Summerfield (2001), il Disturbo post-traumatico da stress fu “inventato” nell’America post-Vietnam per descrivere i comportamenti anti-sociali manifestati dai soldati americani di ritorno dalla guerra, comportamenti tra i quali figuravano condizioni come schizofrenia, depressione, ansia, abuso di sostanze varie, disturbi della personalità ecc. Sulla scia delle proteste del periodo, alcuni psichiatri spinsero affinché i soldati non fossero visti più come (potenziali) psicopatici pericolosi, ma come individui estremamente traumatizzati: vittime piuttosto che colpevoli. Essi riassunsero le loro argomentazioni nella creazione di una nuova diagnosi che potesse consentire ai reduci di godere di trattamenti psichiatrici, pensioni di invalidità e altri vantaggi secondari. Naturalmente, in passato c’erano già state guerre, ugualmente se non più traumatiche, di quella del Vietnam. Ma fu solo la combinazione degli orrori dell’esperienza del Vietnam, le proteste degli anni Sessanta e una nuova sensibilità nei confronti degli effetti dei combattimenti che spianò il terreno alla creazione di un nuovo disturbo psichiatrico.

Da allora, il termine ha preso sempre più piede fino a essere adoperato in rapporto a molteplici situazioni, spesso aventi poco in comune l’una con l’altra. Così oggi si parla di Disturbo post-traumatico da stress in relazione alle conseguenze di una rapina subita, del fallimento di una relazione sentimentale, di un divorzio, di una bocciatura a scuola, di un’umiliazione subita sul luogo di lavoro ecc. In tutti i casi citati, e in altri ancora, gli psichiatri hanno la facoltà di ricorrere a questa etichetta per designare il complesso dei comportamenti esibiti in seguito all’esperienza provata. Come ricorda Summerfield, ciò fa del Disturbo post-traumatico da stress l’unica condizione psichiatrica ambita. La sua ricezione, infatti, conferisce uno status di vittima al quale seguono solitamente vantaggi secondari non indifferenti, anche in termini di compensazioni e benefits di altro tipo.

Eppure, fa notare l’antropologo Allan Young (1995), l’etichetta non possiede alcuna unità intrinseca ed è tenuta insieme semplicemente dalle pratiche, le tecnologie e le narrazioni prodotte dagli psichiatri nel corso delle loro attività. In altre parole, l’etichetta non corrisponde a qualcosa di definito, ma è rinforzata da ogni articolo pubblicato sull’argomento, da ogni conferenza tenuta in materia, da ogni discorso recitato dagli psichiatri e naturalmente dalle diagnosi accumulate dai medici.

Tutto questo spinge Summerfield a osservare che «una diagnosi psichiatrica è innanzitutto un modo di vedere le cose, uno stile di ragionamento, e (nelle cause di risarcimento o in altre rivendicazioni) un mezzo di persuasione: non è sempre una malattia dotata di vita propria» (Summerfield, 2001, p. 97). Nel caso del  Disturbo post-traumatico da stress, ciò è ancora più evidente dal fatto che questa condizione si regge sull’analogia con un fatto fisico – trauma – che viene data per scontata come se esistesse una cosa che si chiama “trauma psicologico”.

Se crediamo che la nostra sia un’epoca priva di retorica, faremmo bene a ricrederci. La retorica pervade a tal punto le nostre vite che determinate analogie appaiono onnipervasive e scontate. E determinano malattie che, fino a qualche decennio fa, non sospettavamo neppure di avere.

Riferimenti

Summerfield D., “The invention of post-traumatic stress disorder and the social usefulness of a psychiatric category”, in BMJ, vol. 322, 13 January 2001, pp. 95-98.

Young A., The harmony of illusions: inventing posttraumatic stress disorder, Princeton, NJ:Princeton University Press,1995.

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3 risposte a L’invenzione del Disturbo post-traumatico da stress

  1. Riccardo Lonetto scrive:

    Senza strumenti concettuali, quale la prospettiva antropologica, diventa difficile per i tanti riuscire a comprendere l articolo che hai scritto. Siamo stati formati a “matematizzate” e “misurare” qualsiasi evento dell’esperienza, ciò implica etichettare e inserire in categorie. Patrizio fraintende perché non comprende

  2. Patrizio Lampariello scrive:

    Purtroppo lei non ha capito un acca di questo disturbo che, nella sua forma più completa, non è stato ancora inserito dall’associazione psichiatrica americana nel DSM V. Dunque, altro che “invenzione” degli psichiatri. Chi le scrive ha frequentato per decenni vari studi di psichiatri e psicoterapeuti e ricevute le più svariate diagnosi proprio perché era (ed è ancora) difficile accettare che si possa soffrire di un disturbo post-traumatico complesso pur…non essendo un reduce di guerra! Per il resto, devo dirle che quelli come lei stanno diminuendo e si arriverà, data la mole di studi sullo stress traumatico complesso, al riconoscimento ufficiale di questa diffusa patologia psichiatrica. Questo succede quando la famiglia d’origine o la propria storia evolutiva sono così terrifiche che non hanno nulla da invidiare ad un soldato su di un campo di battaglia.

    • Romolo Capuano scrive:

      Probabilmente ha frainteso il contenuto del post. Non intendo negare la sofferenza di persone che hanno subito traumi o simili, ma mettere in rilievo come anche le diagnosi e le etichette psicologiche, psichiatriche e mediche hanno una loro storia e sono “inventate” in risposta a precise istanze sociali. Si tratta di una prospettiva sociologica, non di negazione.

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