La curiosa storia della parola “reato”

La storia di alcune parole è caratterizzata da un passato oscuro quanto affascinante che solo la pazienza di un filologo è in grado di far emergere. Prendiamo il termine “reato”. È noto che “reato” sta per “delitto”, “colpa”, “illecito penale”, e che con questo significato è utilizzato tanto nel codice penale quanto nella lingua di ogni giorno. Eppure, originariamente, significava qualcosa di diverso, più precisamente “la condizione dell’imputato”. Lo slittamento di significato è avvenuto per un errore piuttosto grave compiuto da uno dei giuristi più celebri del Medioevo, quell’Accursio (1184-1263) che la storia del diritto ricorda per aver composto una raccolta di circa 97.000 glosse, la cosiddetta Magna Glossa, al testo del Corpus Iuris Civilis, opera voluta dall’imperatore Giustiniano I (527-565) e che fu alla base del sistema giuridico di Bisanzio. Lo storico Federigo Bambi così ricostruisce la storia:

Reato significa “illecito penale in generale” e ha una storia singolare. Nasce sì dal latino con un semplice cambio di desinenza, ma come frutto di un errore. Il fatto è che nelle fonti giuridiche romane il vocabolo non vuol dire “illecito”, ma “condizione dell’imputato”. Poi un giurista del XIII secolo sbaglia, e interpreta il reatus di una fonte giustinianea come se fosse il “fatto criminoso”. E siccome quel giurista era tra i più famosi e, a ragione, tra i più seguiti e citati – addirittura il fiorentino Accursio – quell’uso e quel significato cominciano a diffondersi; e alla fine, nonostante la resistenza di parte della dottrina, reato conquista il primato della scienza penalistica, vincendo i diretti concorrenti come delitto, crimine, maleficio, eccesso. E dallo scorcio del XIX secolo diventa per antonomasia il nome di genere del “fatto criminoso”, con la sanzione dell’art. 1 del Codice penale Zanardelli (1890): «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. I reati, si distinguono in delitti e contravvenzioni».

Questa storia è interessante per più di un motivo: perché ricostruisce la vicenda di una parola di uso comune; perché mostra la complessità del vocabolario giuridico e perché ci fa capire come l’autorità di un individuo possa “sanare” un errore. Del resto non dovremmo sorprenderci. Molte parole di uso comune hanno alla base un errore, anche se non necessariamente di una figura autorevole. A volte è sufficiente che le persone prendano a usare un termine in un certo modo e che l’uso di cristallizzi perché l’errore diventi norma, come dimostra la storia dell’etimologia popolare o paretimologia.

Fonte:

Bambi, F., 2016, L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile. 12. Leggi, contratti, bilanci. Un italiano a norma?, Accademia della Crusca – La Repubblica, Milano, pp. 46-47.

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