Giuseppe Pitré e la mafia

A volte corriamo il rischio di pensare che, dal momento che un personaggio occupa una posizione importante nella storia di una disciplina, il suo pensiero sia sempre e comunque condivisibile, se non corretto. Prendiamo ad esempio Giuseppe Pitré (1841-1916), fondatore della demopsicologia italiana, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla morte. Pitré è un nume tutelare per chi frequenta le discipline demo-etno-antropologiche. L’impulso da lui dato alla storia del folclore italiano, e siciliano in particolare, è enorme. In tutte le storie delle tradizioni popolari viene ricordato come un iniziatore, un infaticabile raccoglitore di materiali, un grande etnografo. Tanti sono i suoi meriti che fu nominato perfino Senatore del Regno nel 1914. Eppure, Pitré è autore di una delle più sconcertanti definizioni della mafia nella sua opera Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano (1889):

La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. […] Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino […]. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, “unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee”; donde la insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso, non ricorre alla Giustizia, non si rimette alla Legge; se lo facesse, darebbe prova di debolezza, e offenderebbe l’omertà, che ritiene schifiusu, o ’nfami chi per aver ragione si richiama al magistrato. Egli sa farsi ragione personalmente da sé, e quando non ne ha la forza (nun si fida), lo fa col mezzo di altri de’ medesimi pensamenti, del medesimo sentire di lui. Anche senza conoscere la persona di cui si serve ed a cui si affida, il solo muover degli occhi e delle labbra, mezza parola basta perché egli si faccia intendere, e possa andar sicuro della riparazione dell’offesa o, per lo meno, della rivincita.

Queste parole, ripetute più volte dai mafiosi – celeberrima la citazione di Luciano Leggio (1925-1993), feroce boss di Corleone – e dai loro avvocati, hanno contribuito ad alimentare nel tempo la novena della mafia che non esiste, della mafia come atteggiamento e fattore culturale. E sono diventate parte immancabile del repertorio dei “negazionisti” della mafia, di coloro che sostengono, appunto, che “la mafia non esiste”.

Si pensi che Pitré arrivò al punto di definire don Raffaele Palizzolo (1843-1910), il più famoso politico mafioso di fine Ottocento, «vero gentiluomo… correttissimo e onesto amministratore»; testimoniò a suo favore in un processo (i due erano colleghi nell’amministrazione comunale palermitana), facendo notare che, avendo Palizzolo scritto un romanzo in gioventù, era «un animo gentile, devoto alla virtù, avverso al vizio ed a qualsiasi turpitudine»; costituì un Comitato Pro Sicilia al fine di esprimere viva indignazione per la successiva condanna di Palizzolo.

Certo, si può argomentare che, a quei tempi, non era ancora sviluppata la consapevolezza contemporanea di cosa sia la mafia. Inoltre, la mafia stessa era cosa ben diversa da oggi. Ciò, però, non basta a giustificare Pitrè e quelli che, dopo di lui, adoperando le sue parole, hanno negato l’esistenza della mafia.

Perché negare è il primo meccanismo di difesa del delinquente. Ed è grave quando la negazione è fatta propria anche da chi dovrebbe, in virtù della sua superiorità intellettuale e della sua coscienza storica, contribuire a sconfiggere il crimine, non ad alimentarlo costruendogli intorno leggende e superstizioni.

p.s. Per chi vuole conoscere meglio la posizione di Pitré nell’ambito della storia della mafia, consiglio Dickie, J., 2007, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, Roma-Bari, pp. 82-83; 143; 147, da cui ho tratto parte delle informazioni sopra esposte.

Per chi voglia leggere l’intero capitolo di Pitré sulla mafia, rimando a questo straordinario sito, ricco di tante risorse interessanti.

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