Capire i “furbetti del cartellino”

boscotrecase

È di pochi giorni fa la notizia che buona parte dei dipendenti del comune di Boscotrecase, in provincia di Napoli, non rispettava l’orario di lavoro, passando il badge per i colleghi non presenti e facendo registrare oltre 200 episodi di assenteismo. È partita la grancassa della retorica dei “furbetti del cartellino” con tanto di invettive contro la classe dei dipendenti pubblici, parassiti lavorativi in un mondo alla disperata ricerca di lavoro, e minacce di rapidissime sanzioni, di una rapidità che non viene invocata più nemmeno per terroristi e pedofili. Invece di unirmi alla maggioranza incarognita, vorrei andare oltre le invettive e le promesse di vendetta, tentando un ragionamento sul perché di questi atti devianti e sulle motivazioni che vi sottostanno. Si tratta di ragionamenti brevi, da sviluppare, scritti di getto e assolutamente insufficienti che, spero, possano contribuire a una discussione più ampia sul fenomeno.

Secondo il sociologo tedesco Max Weber, che alla burocrazia ha dedicato pagine fondamentali, il funzionario è guidato nella sua attività da una serie di principi, di cui elencherò di seguito solo una piccola parte.

Uno di questi è il principio della gerarchia degli uffici, in base al quale i superiori controllano gli inferiori e determinano gli ambiti di autorità e i flussi di comunicazione (sistema rigido di subordinazione, con poteri di verifica e controllo). In virtù di questo principio i subordinati sfuggono la responsabilità e dipendono dai superiori. Il funzionario è tenuto a obbedire all’ordine che gli viene impartito a prescindere da ogni giudizio sulla razionalità, bontà o moralità dello stesso. Conseguenza di questo principio è che il funzionario è esautorato di ogni responsabilità morale (principio di Eichmann), potendo sempre rimandare al giudizio del superiore avvertito come risolutivo, anche se ritenuto soggettivamente incompetente.

Altro principio è quello che l’agire del funzionario è guidato da un sistema di regole generali che governano ogni azione e decisione. Tali regole costituiscono la base di una competenza di tipo specialistico, che determina completamente il comportamento burocratico, rendendo vacuo e inutilizzabile qualsiasi altro criterio di azione.

Terzo principio è quello della impersonalità delle relazioni, da cui discende che il funzionario ha il compito di evitare interferenze “sentimentali” nell’assolvimento dei propri doveri (trattamento imparziale). La conseguenza è che la burocrazia rende l’ufficio inaccessibile alle emozioni umane. Essa obbedisce all’unico imperativo di adempiere alle regole dell’ufficio: ogni altro codice di regole, perfino quello etico, può essere visto con sospetto o come un intralcio.

Infine, i funzionari lavorano nella più completa separazione dei mezzi amministrativi e senza appropriazione del posto d’ufficio. In altre parole, il funzionario non possiede gli strumenti del suo lavoro (anche se tra questi e i suoi oggetti quotidiani possono crearsi legami “emotivi”). Conseguenza di questo principio è che il funzionario vive la propria esperienza lavorativa in termini alienanti e, talvolta, privi di senso. Addirittura, quando chiede al proprio superiore di capire il senso del proprio agire, può talvolta ricevere una risposta dura o ironica a sottolineare la mancanza di senso della sua stessa domanda di senso.

Dall’analisi di questi principi ne discende che il lavoro del funzionario è sostanzialmente:

  • noioso e monotono: scrivere un decreto è un atto tanto astratto quanto alienante. I destinatari sono cittadini lontani verso i quali nessun affetto né solidarietà è possibile (paradossalmente sono proprio gli episodi di corruzione ad avvicinare i dipendenti ai cittadini);
  • impersonale e alienante: non tutti sanno che perfino il diritto d’autore non esiste a livello amministrativo. Tutto l’agire del funzionario deve essere riconducibile a un grande IT (pronome impersonale inglese);
  • totalmente dipendente dal principio gerarchico, con la conseguenza che, in sostanza, l’impiegato è continuamente invitato a eludere il principio di responsabilità a vantaggio di quello gerarchico;
  • guidato da un unico motivatore, lo stipendio: le “soddisfazioni personali e professionali” sono a tutti gli effetti un fattore di risulta e puramente eventuale. La retorica del civil servant, del servitore dell’interesse pubblico è oggi, in un mondo turbocapitalistico e individualista, puramente orpellare. Sicuramente non motiva nessuno.

Alla luce di queste scarse considerazioni, ingannare il marcatempo non potrebbe essere visto come un atto di resistenza? Un tentativo di riacquistare personalità, sentimenti, individualità, perfino coscienza di sé? Una volontà inconsapevole di sfuggire a un mondo alienante la cui retorica bolsa e polverosa non ha più presa su nessuno al mondo d’oggi? Lo proverebbero anche gli evidenti atti di sfida di molti dipendenti che, pur consapevoli di essere spiati da un occhio elettronico, timbrano comunque il cartellino per il collega assente o rivolgono alla telecamera gesti osceni e di indifferenza.

Mi rendo conto che le mie parole potrebbero essere fraintese e interpretate in senso giustificazionista. Ma non è così. Si tratta di un invito a riflettere, a capire, a porsi delle domande. A non limitarsi a condannare e a reprimere. Ad altri, giudizi morali e di diverso genere.

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